Fai parte del gruppo? Metti da parte l’etica.

Dal titolo immaginiamo una persona inserita in un gruppo, con un qualche ruolo che consenta il dettar regole e che in modo spregiudicato e senza troppo curarsi degli altri “fuori dal gruppo” agisce priva di qualsivoglia attenzione nei riguardi del prossimo.

Abbiamo immaginato bene perché è ciò che accade quando ci si lascia trasportare dall’illusione dall’onda del “potere”.

I contesti più diversi ci propongono la vignetta poc’anzi descritta e fin troppe volte ci si è trovati in circostanze simili, direttamente e indirettamente, spettatori di un nostro “pari” che riceve di punto in bianco lo scettro del “comando”. E noi? Noi, quelli che prima eravamo noi più uno diventiamo noi meno il leader.

Il leader nei migliori dei casi, perché noi siamo ottimisti. Ciò che caratterizza un leader è l’inclusione degli altri nel prendere decisioni, la condivisione, l’ascolto, il perseguire “il” fine comune. Il capo invece comanda. Il leader è tale per caratteristiche temperamentali e sapienza comunicativa. Il capo no.

Ma cosa accade di preciso al nostro capo che prende troppo sul serio il ruolo e si dimentica degli altri?

Philip Zimbardo della Stanford University fa riferimento a quel fenomeno noto come la “deindividualizzazione” di cui si iniziò a parlare già nel lontano 1970. Egli si ispirò alla teoria di Gustave Le Bon secondo la quale gli individui di un gruppo coeso, tendono a perdere la propria identità integrandola e fondendola con quella del gruppo, così come la propria consapevolezza e il proprio senso di responsabilità, sentendosi di conseguenza legittimati a mettere in atto comportamenti antisociali.

Furono selezionati 24 soggetti maschi di classe media, equilibrati e attratti il meno possibile da comportamenti sadici. Ciascuno di loro fu assegnato casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. Senza preavviso, i detenuti furono prelevati come reali criminali da casa loro e portati presso il Dipartimento di Psicologia della Stanford University, nel seminterrato debitamente attrezzato a prigione, con sbarre alle finestre, celle e muri spogli. Le guardie furono dotate di un’uniforme, occhiali a specchio per non essere guardati negli occhi, manganello, fischietto e manette.

In breve tempo le guardie iniziarono ad adottare comportamenti aggressivi e sadici nei confronti dei detenuti e solo dopo pochi giorni, la situazione iniziò a divenire psicologicamente insopportabile. I prigionieri cominciarono a manifestare evidenti segnali di stress e depressione.

L’obiettivo era capire se molte brutalità commesse dall’uomo fossero frutto dell’individuo o della situazione Nell’esperimento la domanda trovò risposta.

Se inserito all’interno di un gruppo, l’individuo tende a comportarsi come semplice pedina assumendo spesso comportamenti violenti e autoritari.

Se nella quotidianità il buon senso e l’autocontrollo impongono la non violenza, più difficile è l’autocontrollo sull’essere autoritari. Si entra nella parte e si perde di vista il fatto che fino a poco tempo prima si stava da quell’altra….

Proiettiamoci ora nel contesto lavorativo, un contesto a tutti ben noto e che spesso necessita di un lavoro di gruppo, di confronti continui e costanti tra i diversi attori quale che sia il lavoro svolto. Il collega che fino ad oggi ha svolto mansioni paritarie a quelle degli altri si trova con un improvviso incarico “superiore”.

Sarà leader o sarà capo?

È sicuramente più facile nascondersi dietro al “gruppo” nel dettar legge. Il leader sa stare in ruoli “superiori” coinvolgendo e condividendo il proprio operato. Il capo ordina.

“I trascinatori di folle, il più delle volte, non sono intellettuali, ma uomini d’azione. Sono poco chiaroveggenti, e non potrebbero esserlo, poiché la chiaroveggenza porta generalmente al dubbio e all’inazione.”

Gustave Le Bon

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