Wilma Montesi. Quel cadavere sulla spiaggia che fece tremare il governo

da | Nov 7, 2020 | News

Wilma Montesi. Quel cadavere sulla spiaggia che fece tremare il governo

da | Nov 7, 2020 | News

di Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani.Tor Vaianica, 40 chilometri a sud di Roma. Sabato 11 aprile 1953. C’è un punto in cui le poche case a ridosso del mare finiscono, si fanno più rade. Quella fila di case, a guardarla dall’alto, ha sulla destra una strada, a sinistra la macchia mediterranea e poi la spiaggia. E il Tirreno. Sono le 7.30 di mattina.

È una specie di massa scura, quella che sta sulla sabbia e che attira l’attenzione di un operaio, Fortunato Bettini, che ha 17 anni e se ne va al lavoro, alla faccia del Sabato Santo e di tutto il resto. Beh, Fortunato non si dimenticherà di quel giorno per tutto il resto della sua vita, sicuro. Si avvicina. La massa scura è un corpo di donna. Sta sulla spiaggia, vicino al limite delle onde. È a faccia in giù e il mare, ogni volta che si avvicina, le muove i capelli, li scompiglia. Poi si ritira: e ritorna. Solo che non ha le scarpe. Né la gonna. Né le calze. E passi. Sarà stato il mare. Ma non ha il reggicalze, un indumento fatto in casa, alto 20 centimetri e chiuso da cinque gancetti, su un lato. Roba che il mare non sa togliere. Non è questo che nota l’operaio, mentre corre e chiedere aiuto, ma è quello che notano tutti gli altri: passanti, carabinieri e medico legale. E giornalisti, soprattutto. Non c’è bisogno di chiedere. Silenziosamente, ognuno sa cosa significa che il reggicalze sia sparito. Che morte e sesso si sono fusi, quella mattina presto, sulla spiaggia di Tor Vaianica. Perché un oggetto del genere non si toglie da solo: o lo fa la ragazza o l’uomo che è con lei. Perché il reggicalze, nel 1953, è l’erotica barriera che preclude alle mutandine e alla perdita della verginità. Perché sulle spalle, il cadavere, ha ancora un maglioncino e, quello sì, è restato al suo posto, nonostante tutto, per un solo bottone. E’ iniziato il caso Montesi.

Montesi, Wilma Montesi, è il nome del cadavere sulla spiaggia. E chi è? Ha 21 anni, abita con la famiglia a via Tagliamento, al quarto piano di un palazzone d’angolo immenso, delle Case Popolari. Non una bellezza da far girare la testa, un bel viso di sicuro. A sentire i parenti, una ragazza casa e chiesa, timidissima, pudicissima, fidanzata (dai genitori) con il più classico dei poliziotti di stanza a Potenza (e che avrebbe sposato a dicembre), un’imbranata che non riesce nemmeno a muoversi da sola sui mezzi pubblici. Un ritratto talmente esagerato che non può essere vero e che certamente è fatto apposta per restaurare la sua immagine macchiata dal quel reggicalze sparito. La sua entrata in scena su una spiaggia lontana dalla città, sulle prime, passa inosservata. Un piccolo articolo in cronaca di Roma, come questo: “Una ragazza annegata restituita dalle acque”. La faccenda verrà rapidamente archiviata e già l’articolo lo fa capire: “è risultato che il cadavere non presenta nessuna lesione (…) la polizia ritiene pertanto che la morte sia stata provocata da annegamento”. E più giù: “si tratta di una suicida romana?”. Tutto quello che avverrà negli anni successivi sarà un groviglio di accuse, controaccuse, memoriali, testimoni con la memoria fresca, testimoni che non ricordano nulla, testimoni che ricordano anche quello che non sanno. Ci saranno inchieste e controinchieste, ci sarà un processo. Va bene, d’accordo, ne parleremo: ma intanto, scusate, come e perché è morta Montesi Wilma? Com’è arrivata a Tor Vaianica?

Il punto è che la vicenda Montesi è stata la prima storia di nera a trasformarsi, in Italia, in uno scandalo mediatico capace di far dimettere Questori e Ministri, di provocare inchieste e contro-inchieste, di far accusare il Capo della Polizia … Ma cominciamo dalle cose certe.

Fatto numero uno: la scelta. Il pomeriggio di giovedì 9 aprile, madre e sorella di Wilma le chiedono se vuole andare con loro al cinema, a vedere “La carrozza d’oro”, con la Magnani. Wilma risponde che non le piace il film, dice che preferisce restare a casa. Loro escono.

Fatto numero due: l’ora e i gioielli. Verso le 17.15 – lo afferma la portiera del palazzo, Adalgisa Roscini – cioè circa mezz’ora dopo l’uscita di madre e sorella, invece Wilma esce. Ha lasciato in camera sua gli ori – orecchini, collana – che porta sempre; e la foto del fidanzato di stanza a Potenza. È  vestita con cura, un “tre quarti” di tweed. È evidente che a madre e sorella ha mentito, non voleva stare a casa.

Fatto numero tre: le ricerche. Alle 20, ora di cena a casa Montesi, Wilma non è ancora tornata e poiché non ha mai fatto tardi, i genitori si allarmano e cominciano a cercarla. Rodolfo, il padre, manda anche un telegramma al fidanzato: “Wilma scappata di casa” per non allarmarlo, ma in realtà la cerca tra gli annegati.

Fatto numero quattro: la versione ufficiale. Un’impiegata, Rosa Passarelli, afferma di avere visto Wilma sul trenino per Ostia Lido che, ieri come allora, parte da stazione Ostiense. È un abbaglio, ma nessuno sembra farci caso. La Passarelli infatti è salita sul treno delle 17.30 e in un quarto d’ora è materialmente impossibile, con i mezzi pubblici, andare da via Tagliamento a Ostiense (all’epoca ci voleva una media di 24 minuti). Quello che ci interessa, però, è che la Passarelli si reca nel salotto dei Montesi (prima che dalla polizia!) a dire di aver visto Wilma sul treno. A questo punto si sveglia un ricordo nella memoria di Wanda, la sorella: una frase di Wilma, che si lamentava per un eczema a un piede. Che voleva curare con l’acqua di mare. Ma certo! Tutto torna! Wilma deve essere andata a Ostia a farsi un pediluvio. Ecco, la causa della morte! La madre però non è d’accordo, anche se la spiegazione di Wanda è perfetta per spiegare il fatto che Wilma sia stata ritrovata mezza nuda. Risposta della loquace Passarelli: “Ma perché vuole escludere la disgrazia? Ci pensi, lei ha un’altra figlia”. La spiegazione ufficiale della Polizia nasce da questa riunione di famiglia con ospite: ed è quella che non approfondisce, volutamente, tutti gli elementi sessuali che la vicenda invece suggerisce chiaramente, per salvare l’onesta reputazione della famiglia (in fondo, Maria Goretti era stata santificata solo tre anni prima…). E quindi: Wilma aveva le mestruazioni, ha avuto un malore a contatto con l’acqua fredda, è svenuta ed annegata in venti centimetri di mare. Le correnti hanno fatto il resto e voilà, eccola recapitata dalle onde sul litorale di Tor Vaianica. Semplice. Wilma era da sola sul treno e da sola è morta. Amen. C’erano ipotesi, nella morale del 1953, che non potevano nemmeno essere prese in considerazione…

Fatto numero cinque: l’autopsia. Viene fatta tardi, causa ponte pasquale i cadaveri del fine settimana hanno dovuto aspettare. Tanto non si lamenteranno di sicuro. Nei polmoni i periti Frache e Carella trovano molta acqua di mare, frammista con la sabbia tipica della costa. Annegamento. Ma di quale costa? Di Ostia o di Tor Vaianica? Ma l’ora della morte? Boh. Il primo medico intervenuto – che non era, però, un medico legale – a guardarla così, per niente gonfia, dice che è morta da circa 18 ore. Quindi nelle prime ore, più o meno, del giorno successivo alla scomparsa. Il giorno successivo!? I periti dell’Istituto di Medicina Legale parlano invece di un tempo più lungo, compatibile con un annegamento avvenuto il giorno stesso della scomparsa. Sono due cose completamente diverse. Nessun controllo sul sangue, comunque, per cercare sostanze che possano avere a che fare con la morte: il magistrato non lo chiede, in fondo il caso è semplice. È stata una disgrazia. Nello stomaco non c’è la cena, piuttosto i resti d’un gelato. Ma, la cosa più importante di tutte? “La ragazza è sana e integra”, dicono i periti Frache e Carella. Un giro di parole modello anni Cinquanta per dire che Wilma è vergine.

Fatto numero sei: i testimoni di Ostia. Una si chiama Giovanna Capra, professione bambinaia, e dice che Wilma si aggirava con aria interrogativa sulla spiaggia libera di Castelporziano (siamo quindi ancora a Ostia) nel pomeriggio del 9 aprile. Più tardi, alle 19, invece, se la ricorda Pierina Schiano, che ha l’edicola da quelle parti. Dice che era proprio Wilma la ragazza che si fermò da lei a comprare e scrivere una cartolina, parlando forse di un fidanzato a Potenza. 

Fatto numero sette: i vestiti. Quelli che mancano a Wilma non si trovano, né allora né dopo. E questo è importante. Il reggicalze continua a tenere banco. Il perché è chiaro: per quanto fosse un accessorio di uso quotidiano per i tempi, certo era inutile indossarlo per andare a curarsi un eczema. Toglierlo, poi, sarebbe stato scomodissimo, in spiaggia. Wilma, la pudicissima Wilma, avrebbe dovuto alzare la gonna fino all’ombelico, sganciarlo e solo dopo procedere con le calze, col rischio di essere vista da tutti.

Ma, a questo punto, i giornali si sono già impossessati del caso Montesi. La versione ufficiale non tiene. Il caso monta, ogni giorno di più. Il 22 aprile i signori Montesi tirano fuori tutti i loro dubbi: questa cosa che manca il reggicalze li tormenta, li lacera, li confonde. Non può esserselo tolto da sola! No! Dev’essere stata uccisa da un bruto! Il Questore di Roma ed il Capo della Polizia litigano, finchè il Procuratore della Repubblica di Roma non dichiara che il caso Montesi non è chiaro manco per un accidente. Ancora pochi giorni e – non si sa come, probabilmente nella sala stampa della Questura – iniziano a correre, impazzite,  voci che sussurrano il coinvolgimento del figlio d’un ministro nella vicenda. È l’inizio della valanga. Comincia il “Roma”, quotidiano monarchico, con un articolo chiarissimo fin dal titolo: “Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?”. Il fatto è che la figlia del falegname Rodolfo sta diventando un simbolo, quello della corruzione di una classe politica. Lo scenario che si intravvede – una bella ragazza, il figlio d’un politico, sesso prima del matrimonio, omicidio – mette insieme due cose che nel 1953 sono un nervo scoperto della società italiana: moralità della classe politica e dissolutezza. Cose che oggi diamo per scontate, ma che allora non lo erano affatto. Un politico non poteva essere accostato in nessun modo ad uno scandalo sessuale. Figuriamoci a un omicidio. E’ così che la timidissima e pudicissima Wilma diviene, suo malgrado, il simbolo di un malcostume della classe dirigente, di una mancanza inaccettabile di valori, di un bisogno di pulizia e di teste da tagliare. Da lì a far sì che l’Italia si processi da sola il passo è più che breve. Dopo un po’ Montesi Wilma diventa il pretesto per parlare d’altro: per montare lo scandalo e fare i conti con una decennale diffidenza della gente verso i politici, che durante il fascismo era stata sopita a manganellate e che adesso viene fuori di botto, come una vendetta.

Ma le elezioni sono vicine, il 7 giugno: e forse fare il nome del figlio d’un ministro – democristiano, ovvio – non è proprio una cosa disinteressata. Non vi pare? L’uomo politico di cui si sussurra è niente meno che il vicepresidente del Consiglio, Attilio Piccioni, erede designato di Alcide De Gasperi. Che ha due figli. Un settimanale pubblica una vignetta allusiva: un piccione che nel becco tiene un reggicalze. Chi vuol capire capisca. Poi, le chiacchiere rimbalzano tra l’uno e l’altro dei figli di Piccioni, tra Leone e Piero, indecise. E, alla fine, si poggiano sulla testa di Piero – in arte Piero Morgan – forse perché è un jazzista e vive di notte; forse perchè suona quella musica americana che rompeva gli schemi del bel canto. Uno così deve essere per forza disinvolto, fuori dagli schemi, sospetto. Piero allora si precipita dal Capo della Polizia: vuole capire, vuole smentire. E la polizia smentisce, infatti. Prove? Non ce ne sono, ripetono. Dopo un po’, però, la valanga riprende a precipitare. Settimanali comunisti, agenzie di stampa legate ai socialisti: le insinuazioni crescono. Si va a votare. La Dc perde parecchi voti, ma è sempre il primo partito. La valanga, però, non accenna a fermarsi. Prende fiato e torna a scendere a ottobre ’53. Il numero uno della rivista “Attualità”, diretta dal 23enne Silvano Muto, mette nero su bianco che: Wilma è morta vicinissimo da Tor Vaianica, nella tenuta di caccia di Capocotta, gestita dal ricco e forbito marchese Ugo Montagna, 43 anni, siciliano, amico di tutti quelli che contano, durante una festa a base di sesso, prostituzione e droga. Poi lui e Piccioni l’hanno buttata sulla spiaggia, a evitar guai. Che poi la droga, nel 1953, è tutt’un’altra cosa. Non è lo sballo del sabato sera, né la pera del povero cristo di turno. Nel 1953 è roba da D’Annunzio e Baudelaire, uno sfizio per ricchi annoiati. È la conferma di quello che tutti pensano: che dentro i palazzi del Potere vivono speculatori e affaristi che non si tirano mai indietro. Vivono il marcio e l’osceno.

Una ragazza legge “Attualità”. Capisce che si parla del suo ex. La ragazza è la milanese Maria Augusta Moneta Caglio Bessier d’Istria, sinteticamente detta Anna Maria (abiti di lusso, maniere da buona società, erre moscia) ed è stata per un anno burrascosamente fidanzata con Montagna, che detesta per essere stata scaricata. È convinta che lui traffichi in droga, che abbia a che vedere con la morte di Wilma, che altre donne siano state uccise. Telefona subito a Muto. Corre dal Procuratore della Repubblica. È sicura che il marchese abbia cercato di accopparla con una sogliola avvelenata. Affida un suo memoriale ai gesuiti, che a loro volta lo scodellano sulla scrivania di Amintore Fanfani, Ministro dell’Interno, che ordina i carabinieri di indagare subito. E di farlo in silenzio. Muto, intanto, viene denunciato per “aver diffuso notizie atte a turbare l’ordine pubblico”. A gennaio ’54 gli fanno il processo: lui, per tutta risposta, tira fuori invece una testimone, anzi due. La prima si chiama Adriana Bisaccia, viene da Avellino, sogna di sfondare nel cinema ma è finita ad atteggiarsi a esistenzialista e a fare, piuttosto, la dattilografa. Abita in un sottoscala con Duilio, pittore morfinomane. Non si capirà mai se quel che sa di Wilma (e che conferma le affermazioni della Caglio) l’ha visto o l’ha sentito dire. Fatto sta che per difendersi, Muto trasforma il processo a lui in quello ad una classe politica marcia e corrotta. E rivela le sue fonti, fino ad allora rimaste segrete. La Caglio e la Bisaccia si trovano sbattute in prima pagina, nell’arco di ventiquattr’ore. Solo che, mentre la Caglio si sente subito a suo agio sotto i flashes dei fotografi, la Bisaccia una volta conferma e una smentisce, sfugge, si contraddice. Finisce ricoverata in clinica, crolla.

È l’ora del tutti contro tutti: Montagna querela Muto, i comunisti attaccano la Dc (è in quei giorni che Ingrao conia la “questione morale”, mentre Pajetta urla agli avversari, alla Camera: “capocottari!”), altri testimoni che querelano i giornali, Piccioni e il marchese che vengono interrogati a Palazzo di Giustizia, democristiani che passano notizie all’ “Unità” per affossare altri democristiani, Alida Valli che depone: quel giorno Piero era con me, ad Amalfi, col mal di gola! Il 3 marzo 1954 la Procura archivia tutto: fu solo un pediluvio fatale. Il giorno dopo, però, la Caglio depone al processo Muto e, in un oceano di fotografi e di pubblico, conferma tutto. Esplode la bomba. ‘Sto caso Montesi proprio non vuole morire! La Caglio mette dentro ogni cosa: tratta delle bianche, affari immobiliari sporchi, omosessualità del marchese, regali suoi a ministri e giudici, tonnellate di soldi, droga, i gesuiti, Fanfani, tutto. Muto viene dimenticato, Wilma anche. L’Italia inizia a processare la sua classe dirigente, ma ha già emesso il suo verdetto: colpevoli tutti, i giudici, i politici, i poliziotti, gli affaristi. Tutti insieme.

Salta fuori, anche, che nessuno ha mai controllato i talloni di Wilma: la perizia sulla possibilità dell’eczema l’hanno fatta su quelli di Wanda! La difesa di Muto tuona all’insabbiamento, allo scandalo! Insomma, cosa e chi si vuol coprire, chi sta dietro la morte della Montesi? Fuori i nomi!

Poi tocca alla Bisaccia deporre: ma lei invece nega tutto. Non sa niente, dice. In aula viene letto il rapporto Pompei, quello dei carabinieri, quello chiesto da Fanfani: si scopre che Montagna non è affatto un marchese, anzi ha una fedina penale lunga come l’elenco telefonico di Roma. Che è ambiguo, che ha lavorato per l’Ovra ma anche per gli americani, che è sempre stato in mezzo a feste e donne “di dubbia moralità”. I carabinieri, insomma, si mettono contro la polizia: la gente li vede, adesso, come i depositari della verità, la stessa che la polizia aveva nascosto. Qualcuno stampa dei manifesti col rapporto Pompei e li attacca nelle strade di Roma. Il Capo della Polizia, Tommaso Pavone, accusato di essere amico di Piccioni & Montagna, si dimette. Il processo Muto è sospeso, mentre una folla enorme circonda il Palazzo di Giustizia e la polizia spiana i mitra. Alla crisi di governo ci manca poco, pochissimo. Ma forse non è nemmeno più importante. La stampa di sinistra è ormai in preda a un raptus, a una furia moralizzatrice, che tutto annienta. Quella di centro si difende e difende la borghesia cattolica. La Caglio diventa un’eroina, un simbolo del coraggio. Per altri, invece, è solo una ragazza troppo giovane, furiosamente gelosa e smaniosa di celebrità.

Si riapre l’inchiesta. Stavolta l’affidano ad un corpulento mastino travestito da giudice, Raffaello Sepe. Con lui la valanga diventa un rullo compressore. Sta subito simpatico agli italiani, l’inflessibile Sepe: di lui si parla ogni giorno. Come veste? Cosa preferisce a tavola? Ecco la foto da bambino. Ecco quella del servizio militare. Quello che Sepe non sa è che ogni sua mossa viene spiata dalla polizia, che dopo la faccenda Pavone cerca ogni occasione per far fare brutta figura ai giudici. Sepe chiede una nuova perizia medico-legale a tre illustri cattedratici (Ascarelli, Maccaggi e Canuto). I pareri, però, non sono concordi. La morte della Montesi viene collocata tra le 8 e le 20 ore prima del rinvenimento, il che lascia aperta ogni ipotesi. Esclusi malore e pediluvio, comunque. Sul corpo ci sono cinque ecchimosi da afferramento. Wilma abbandonata sulla riva? Di sicuro è morta per annegamento, mentre il gelato è stato mangiato tre-quattro ore prima della morte. Confermata la verginità, ma qui i tre periti sono assai più specifici: non possono negare “eventuali contatti incompleti o contro natura”…  Ovviamente. Quanto all’arrossamento dei famosi talloni, lo spiegano con “quegli insetti che attaccano i corpi sia in acqua che sulla spiaggia specialmente nelle ore notturne”.

Sepe cerca anche di distinguere il vero dal falso: fa arrestare la Bisaccia, che ormai sforna memoriali un giorno sì e uno no (in cui accusa Piccioni di averla frustata e altre amenità del genere). Il problema è che tutti cercano di farsi notare. Un centinaio di testimoni assurdi, in cerca di visibilità, vengono scartati; alcuni finiscono in manette.  L’affare Montesi è mediatico prima ancora che il termine “media” venga inventato: quindi, attualissimo. I quotidiani comunisti tuonano contro il governo. Gli italiani seguono spasmodicamente la faccenda. Le vendite dei giornali si impennano. I giudici sono costretti – osserverà Enzensberger – a “leggere i giornali per tenersi al corrente dei loro stessi processi”, perché spesso le affermazioni dei nuovi testi, o di quelli già noti, per prima cosa escono sui quotidiani. E solo dopo vengono ripetute dal giudice. A settembre i guardiani di Capocotta sono arrestati perché coprono Montagna. Attilio Piccioni, Ministro degli Esteri, padre di Piero, si dimette. Poco dopo, Montagna & Piccioni sono arrestati. Il Questore di Roma, Polito, è coinvolto. Scoppiano tafferugli e festeggiamenti nelle strade.

Ma siccome alla Polizia brucia ancora la questione Pavone, negli stessi giorni, alla Questura di Roma fanno una nuova inchiesta. E se fosse coinvolto lo zio di Wilma, Giuseppe Montesi? La polizia afferma che la centralinista della tipografia dove lo zio lavora, quel giorno, lo ha sentito dare appuntamento alla nipote, per una gita al mare a Ostia. E questo succedeva perché lo zio aveva una storia con la nipote, di cui la mamma di Wilma era a conoscenza. In effetti zio Giuseppe quel pomeriggio s’era assentato proprio nelle ore della scomparsa della ragazza… Fatto sta che l’uomo si trasforma immediatamente nell’immagine dell’individuo losco. A scavare si trova sempre qualcosa: ad esempio, si scopre che Giuseppe Montesi ha avuto un figlio segreto dalla sorella della sua fidanzata, che colleziona mutandine delle sue amanti e che è in pessimi rapporti col fratello, padre di Wilma. Ma uno dei principali testi della polizia, il titolare della tipografia, è anche buon amico di Piccioni. Sepe sente puzza di bruciato e passa oltre. Zio Giuseppe querela tutti. 

Intanto, i Montesi se la passano male. Con tutti questi dubbi e dicerie sulla moralità della figlia (ed ora anche sullo zio) la gente ha preso a guardarli male. Il lavoro della falegnameria del padre è calato di molto, i debiti sono aumentati. Così, cominciano a chiedere soldi per rilasciare anche mezza intervista. “Scriva pure il suo articolo, può metterci tranquillamente anche dei dettagli un po’ piccanti, poi me lo fa vedere. Vedrà, troveremo una soluzione” dice la mamma di Wilma, intercettata, ad un giornalista. Sono gente pratica.

L’istruttoria Sepe è conclusa. Nelle 424 pagine, però, si fatica davvero a trovare delle prove reali, concrete. Rimane la parola della Caglio contro quella di Montagna & Piccioni. Rimane un sentito dire. I testimoni sono decine e decine, ma non hanno niente da dire. Wilma ne esce in maniera diversa da come la descrivono i genitori: ora si sa che è stata sentita dire frasi tutt’altro che educate, che ultimamente aveva una borsetta di coccodrillo che costava un sacco e riceveva telefonate cui rispondeva abbassando la voce, che usciva spesso di pomeriggio. Il processo si fa a Venezia, nel gennaio 1957. C’è la creme de la creme dell’avvocatura italiana: Carnelutti, Ungaro, Delitala, Augenti, Vassalli. Quattro testimoni dicono che il 9 aprile ’53 Piccioni era con loro. Forse l’unico colpo di scena è l’interrogatorio dello zio Giuseppe, che spiega perché si allontanò prima dalla tipografia, il giorno della scomparsa di Wilma: perché stava male il bambino che aveva avuto dalla relazione segreta con Rossana, la sorella della sua fidanzata. Tutto a posto? Macchè. Salta fuori una signora Piastra a dire che, a quell’ora, Rossana l’ha vista a Termini, cioè da tutt’altra parte. Finirà in una bolla di sapone. Il 27 maggio 1957, un po’ prima di mezzanotte, vengono assolti tutti, con formula piena. Nel 1963 viene condannato per calunnia lo zio Giuseppe. Nel 1967, Muto e la Caglio sono definitivamente condannati per lo stesso reato. E Wilma? Com’è morta, allora? Ah, già, Wilma… Perché non tornare ai fatti da cui siamo partiti, allora? Anzi, aggiungiamone tre.

Fatto numero otto: la sabbia. Wilma, affermano i tre periti di Sepe, non è morta a Tor Vaianica, visto che la sabbia nei polmoni non è di quell’arenile.  

Fatto numero nove: Wilma esce ben oltre le 17 per andare a farsi un pediluvio ad Ostia (dove non andava da quattro anni), che dista da Roma un’ora di trenino tra andata e ritorno, sapendo che a casa sua si cena categoricamente alle 20. E che, essendo aprile, il sole alle 19 sarebbe già calato. Le condizioni del mare di quel pomeriggio – burrascoso – avrebbero dovuto comunque dissuaderla dal suo intento, una volta arrivata. Tutto questo e la presenza del reggicalze ci dicono che Wilma è uscita per andare dentro Roma (in meno di tre ore doveva essere a casa per cena) e poi è finita in mare, semincosciente, dove è morta per annegamento. Con chi aveva appuntamento?

Fatto numero dieci: la famosa tenuta di Capocotta è costituita da capanni per i cacciatori e da due casette abitate dai guardiani, senza luce e acqua. Il resto sono boschi. Non si capisce dove sarebbe successa l’orgia fatale.

C’è stato un tempo in cui l’Italia credette a qualsiasi cosa potesse incriminare la sua classe dirigente, compresa una Caglio, un Muto, una Bisaccia. Il caso Montesi fu l’occasione per un regolamento di conti politico e sociale, di cui, forse, l’unico vincitore fu Amintore Fanfani, che nel 1954 ottenne la poltrona di segretario della Dc. Resta una domanda, anzi due: ma allora la figlia del falegname, Wilma, quel pomeriggio dove diavolo è andata? E com’è morta?

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