C’era una volta, un libro, che per molto tempo rimase immobile, ignorato, destinato alla medesima sorte di molti altri, di cui ho iniziato la lettura mesi, o addirittura anni dopo averli relegati sullo scaffale della mia libreria. Un tesoretto di tutto rispetto ma i miei tempi di lettura sono sempre stati capricciosi. Tuttavia, un bel giorno decisi di iniziarlo.
“Donne che corrono coi lupi” la cui autrice è un’analista di professione con un dottorato in etnologia e in psicologia clinica. Un libro di grande valore culturale e aggiungo, anche affettivo. La curiosità nasce dal titolo, e dal fatto che l’autrice esprima concetti psicoanalitici di grande rilievo con un continuo richiamo a fiabe e miti di diverse tradizioni culturali. La loro interpretazione avviene attraverso ciò che lei chiama la donna selvaggiaintesa come una forza psichica potente, che attinge energia dall’istinto, creatrice, fiera e materna al tempo stesso. Questa figura dall’apparenza forte, che lei paragona a quella di una lupa, è tuttavia investita e soffocata da paure, insicurezze e stereotipi.
Ed è proprio in questo quadro narrativo che l’autrice coglie l’occasione per illustrare il concetto di “guarigione”. Guarigione della psiche quando viene profondamente ferita. Un concetto strettamente legato con quello di verità, intesa come possibilità che ognuno di noi deve darsi per esprimere il proprio punto di vista oltre al proprio rimpianto e alla propria sofferenza. Ira, disgusto, vendetta, desiderio di punirsi o di punire l’altro. E’ fondamentale che la persona dica la propria verità, quella nuda e cruda, qualunque essa sia. Solo così, la “vecchia guaritrice della psiche”, che comprende la natura umana fatta anche di debolezze, concede il perdono.
Secondo l’autrice, il perdono è un sentiero che la persona deve percorrere senza prendere scorciatoie, seguendo un percorso definito da quattro tappe fondamentali:
- Prendere le distanze da ciò che ci ha feriti.
- Astenersi
- Dimenticare
- Perdonare
Prendere le distanze vuol dire allontanarsi. Non fisicamente ma mentalmente poiché ben sappiamo che non sarà mai la distanza fisica la soluzione. l’idea legata all’evento avrà cura di ripresentarsi ogni qualvolta vorrà. È necessario allontanarsi dal pensiero negativo, dalla persona che ci ha offesi smettendo di pensarci. Occorre prendersi una vacanza dal pensiero che ci invade. Del tempo per rigenerarci e per godere dello spazio lasciato libero.
Questo esercizio non ha un tempo. E’ il nostro tempo, quello di cui abbiamo bisogno per allontanarci. Ognuno di noi ne ha uno e non esistono scadenze. Un concetto molto simile al concetto di spostamento. Si spostano le energie su questioni interessanti e belle. Si sa che il tormento delle antiche ferite tenterà con forza di farsi strada ma offrire una tregua alla propria psiche aiuta. Ci sarà tempo per riprendere poi la questione.
Astenersi. Dal pensare e dal castigo. In questa fase, si tenta di “mettere dei paletti”, di relegare la questione dolorosa entro spazi definiti anziché lasciarla libera di fluttuare. Questo non vuol dire far finta che non esista né tantomeno imporci di non provare emozioni prendendo a schiaffi il nostro senso di autoprotezione. Releghiamo l’accaduto in uno spazio/tempo che stabiliamo noi. Chiediamo inoltre a noi stessi un piccolo atto di clemenza, non reagiamo d’impulso e stiamo a vedere se ciò aiuta.
E’ un esercizio di pazienza, di resistenza nell’incanalare l’emozione. Sono piccoli comportamenti messi in atto non necessariamente tutti insieme, e che consentono di modificare il proprio comportamento di fronte a ciò che altrimenti avremmo fatto. Astenersi significa essere generosi, lasciando spazio alla compassione. La compassione ha il suo modo di dirimere questioni dolorose con gradualità smorzando sentimenti di irritazione e rabbia che ci invadono.
Siamo pronti per dimenticare. In sostanza cancellare dalla memoria. Quell’atto di coraggio che ci spinge a non indugiare nella staticità in cui la rabbia, la frustrazione, il rancore ci inchiodano. E’ un atto cosciente che implica la piena consapevolezza che quanto accaduto farà sempre parte di noi ma è l’importanza che ora gli diamo ad essere diversa. Non ha più la priorità, non s’impadronisce più della nostra mente a suo piacimento. Non vuol dire mettere a tacere ma decidere di richiamarlo alla memoria quando vogliamo noi.
Gli ultimi metri di fatica, il sentiero ormai è in discesa e in noi molto è cambiato da quel giorno. Siamo giunti alla fase del perdonare. Come? In tanti modi. Possiamo perdonare ma senza dare altre possibilità, darne altre, perdonare per un po’ e poi si vedrà. Nessuna decisione è migliore dell’altra. È nostra e in quanto tale giusta per noi. Perdonare non vuol dire capitolare. Consciamente la smettiamo di nutrire rancore. L’altro era in debito nei nostri confronti. Noi il debito lo rimettiamo. La decisione del quando e del come spetta solo a noi. Sceglieremo persino un rituale con cui sancire la decisione. Il rituale del perdono. Una stretta di mano, un saluto, un gesto, una parola, un pianto, un abbraccio…
Perdonare non abbassa le nostre difese ma smuove la freddezza. Le emozioni si connoteranno di calore, faranno sentire l’altro incluso e smetteremo di ignorarlo, di far finta che non esiste. Se proprio abbiamo difficoltà a dedicare del tempo alle persone che ci hanno causato sofferenza vale la pena diminuirlo piuttosto che dar loro freddezza e insensibilità.
E come nelle fiabe, anche se il fine non è sempre lieto, tutto ha un nuovo inizio. Sempre.