di Fabio Sanvitale
Giancarlo Giudice, Donato Bilancia, Gianfranco Stevanin. Tre serial killer italiani. Cos’hanno in comune? Ognuno di loro ha risparmiato una vittima, che si è trasformata in testimone d’accusa ovviamente. Ma perché l’hanno fatto? Ma come, gli assassini seriali non dovevano avere una compulsione assoluta a uccidere?
in realtà le cose non sono mai state così o lo sono solo al cinema. Ci sono stati seriali che si sono spontaneamente interrotti per anni e anni, quindi il discorso della compulsione a uccidere, dell’impossibilità a fermarsi è compromesso alla radice. Penso a Peter Kurten, a Jeffrey Dahmer. Erano appagati, nelle loro pulsioni, da qualcos’altro. Ma fermarsi mentre si sta per uccidere, fermarsi a un millimetro da un nuovo trofeo, da un nuovo appagamento, è tanta roba. Vediamo innanzitutto i fatti accertati.
Giancarlo Giudice (nella foto sotto) è un serial killer torinese. Camionista, drogato di pornografia, uccide nove prostitute tra il 1983 e il 1986. “Ho ucciso per impulsi che non saprei nemmeno io analizzare esattamente. Mi accadeva di perdere all’improvviso il controllo di me. Di solito questo accadeva quando bevevo un po’. Mi capitava di uccidere, senza averlo deciso prima. Dopo l’omicidio mi sentivo svuotato, senza energie, come un drogato senza droga (…). Non mi è mai capitato di essere assalito dai rimorsi, nè ripensavo alle vittime“. Un assassino del tutto impulsivo e privo di pianificazione. Eppure. Eppure, due sopravvissero.
Con una la pistola si inceppò, lei allora supplicò Giudice di risparmiarla, aveva due figli piccoli. Lui la buttò fuori dall’auto. Verosimilmente, il ricordo della sua infanzia da orfano era tornato e lei si era salvata per questo. Parliamo dello stesso serial killer che amava vedere gli ultimi spasmi delle sue vittime e ci godeva. Un’altra non si accorse nemmeno di essere stata vicina alla morte: Giudice non l’aveva uccisa perché era stata particolarmente dolce, “ci aveva saputo fare“. I periti, Gianluigi Ponti e Ugo Fornari, conclusero che era capace di intendere e di volere e che per quanto avesse delle dinamiche psicologiche distorte, queste non gli impedivano un corretto funzionamento, nè di recedere dai suoi intenti, come d’altronde era dimostrato dall’aver scelto di non uccidere due volte. La Corte d’Appello lo riconobbe invece seminfermo e lo condannò a trent’anni più tre di manicomio giudiziario.
Gianfranco Stevanin, tra il 1993 e il 1994 uccide 5 prostitute a Torrazzo (Verona, nella foto sotto).
L’ultima vittima predestinata, la prostituta austriaca Gabriele Musger, si salvò perchè, dopo cinque ore di violenze e paura, gli disse che se l’avesse risparmiata gli avrebbe dato tutto quello che aveva, circa 25 milioni di lire. Lui accettò e con la sua Dedra blu partirono per casa di lei. Ma al casello di Vicenza Ovest, nella nebbia dell’alba, lei vide un’auto della Polizia e si gettò fuori chiedendo aiuto. In pratica, Stevanin fu catturato per questo.
“Quella sera stavo più male del solito. Avevo visto mio padre praticamente morto. Lui respirava ancora ma era in uno stato di incoscienza (per un cancro ai polmoni, N.d.A.). Uscito dall’ospedale, nelle condizioni immaginabili in cui ero, cercai un contatto, un’amicizia, un po’ di calore umano. (…) Iniziai allora a girovagare senza una meta precisa. (…) Arrivai a Vicenza dove vidi una ragazza che poteva darmi un po’ di quel calore umano che cercavo, anche a costo di pagarlo…“.
Stevanin però l’ha legata, fotografata, violentata, minacciata col coltello. Lei ha cercato di fuggire, lui l’ha ripresa. Lei gli ha offerto i soldi. Lui dice che questa è una bella cosa. Inizia un tira e molla di due ore, lui non si fida. La possiede ancora. Ora lui si è calmato. Sembra incredibilmente convinto di averla sedotta. Poi, il resto. Viene dichiarato capace di intendere e di volere e condannato.
Donato Bilancia, genovese (nella foto sotto), il più prolifico serial killer italiano. 17 vittime, più del Mostro di Firenze. Il 3 aprile 1998 va a casa della prostituta Luisa Ciminiello per ucciderla. “Questa qui ha avuto la fortuna di potermi parlare un secondo, si è messa un attimo a piangere, mi ha detto: “ma no che cosa vuoi fare, c’ho un bambino…ho un bambino piccolino…”, e lì mi sono proprio… mi ha ucciso, ha ucciso lei a me… non ce l’ho fatta, non ce l’ho fatta, dopo non ce l’ho fatta, e me ne sono andato“. In realtà è un bluff: la foto sul comodino è quella del nipotino di due anni. Bilancia però non lo sa. Resta a casa sua per dieci minuti, indeciso se ammazzarla o no. Poi va via.
Forse ha ripensato al suo, di nipote, morto insieme a suo fratello tanti anni prima, quando quest’ultimo si era suicidato gettandosi sotto un treno. Addirittura torna dopo un’ora dalla Ciminiello, per chiederle scusa a citofono. Lei è viva per miracolo, per la sua prontezza di spirito, quando la Smith & Wesson era già davanti la sua faccia. E testimonierà al processo. Bilancia è riconosciuto pienamente capace di intendere e di volere e condannato al carcere a vita, più altri anni da scontare.
Cos’è successo, dunque? Che il ricordo di traumi passato ha bloccato Giudice e Bilancia, mentre Stevanin si è interrotto per avidità. Eppure tutti e tre volevano uccidere, o lo pianificavano prima (Bilancia) o perdevano il controllo dopo (Stevanin e Giudice). E infatti, due su tre risulteranno capaci di intendere e di volere, il che sta a significare, a maggior ragione, che potevano interrompersi, che potevano dire di no a quella voglia di uccidere, se solo lo avessero voluto. Che non hanno ucciso in preda a un fantomatico raptus, ma per loro libera scelta e volontà. Essere un serial killer, dunque, è molto peggio che essere agiti da una pulsione irrefrenabile, come raccontano il cinema e le serie tv. Si tratta di una libera scelta. Ecco perché quelle donne sopravvissero e questi tre serial killer non finirono in manicomio. Perché anche se sei un assassino seriale puoi sempre fermarti.