Omicidio di massa. Quando a commetterlo è un adolescente.

da | Mag 26, 2022 | Psicologia

Omicidio di massa. Quando a commetterlo è un adolescente.

da | Mag 26, 2022 | Psicologia

Molti di noi ricorderanno i fatti della Columbine High School, quella strage in ambito scolastico avvenuta il 20 aprile1999 negli Stati Uniti ad opera di due adolescenti. Sono stati scritti libri, intervistati i genitori dei ragazzi, e se n’è parlato molto. A livello mediatico ha avuto grande risonanza, del resto un bilancio di 15 morti e 24 feriti non lascia indifferenti. Gli autori: Eric Harris e Dylan Klebold, due diciottenni, descritti come ragazzi piuttosto isolati e strani, con una passione per l’informatica ma nello specifico per quei giochi definiti “sparatutto” in cui le vite sono infinite e l’obiettivo è uccidere. E se questo avviene in maniera cruenta ancora meglio.

Quei ragazzi, giovanissimi, erano molto altro però. Le loro di vite si sono interrotte insieme a quelle dei loro compagni, quel giorno, quando dalla rassicurante realtà virtuale sono passati a quella meno rassicurante di un ambiente al quale si sentivano di non appartenere. Quei ragazzi scelsero il suicidio dopo la sparatoria nella biblioteca della scuola. Un ripetersi del gioco che dalla fantasia del virtuale passa alla realtà. Le vite non sono però infinite. GAME OVER.

E invece no, quel “game over”, tanto game over non è stato. Quel gesto emblematico, tragico, esasperato ha sollevato nella gente comune un grande interrogativo. Ha smosso sicuramente la coscienza, quella collettiva. Perché due ragazzini di 18 anni hanno fatto una strage?

Come si può?

Sul come si può c’è poco da dire, la dinamica dell’evento è stata meticolosamente riportata da quotidiani, libri, interviste ad esperti. Ma di questi ragazzi cosa possiamo dire? Com’erano e come stavano? Quanta sofferenza ha fatto da “spinta” al gesto estremo?

Non vogliamo giustificare nessuno, è doveroso specificarlo.

L’intenzione è quella di leggere “oltre”, di soffermarsi sulla zona grigia, ne nera ne bianca. Per Eric e Dylan il bullismo sembra essere stato un fattore importante, determinante, che ha indirizzato e influenzato il pensiero dei due ragazzi, i loro vissuti e il tragico epilogo. Proprio loro sono stati vittime di bullismo per lungo tempo e alla luce dei fatti, questo particolare suscita una certa sorpresa iniziale.

Durante le pause a scuola e nel tempo libero, Eric e Dylan erano soliti girare dei “corti” in cui loro due erano eroi sempre pronti a difendere chi si trovava in pericolo. Il pericolo consisteva in minacce e atteggiamenti bullizzanti. Il povero malcapitato (un attore del gruppo ristretto di amici) veniva alla fine salvato dall’intervento dei due che comparivano all’improvviso nella scena, vestiti con abiti scuri e trench nero.

Rischio di banalizzare il tutto e distogliere l’attenzione dal punto centrale e non andrò nello specifico del background familiare, dell’aspetto legato alla qualità delle relazioni interpersonali e nemmeno del disagio psicopatologico. Basti sapere che tutto ciò era largamente presente e disfunzionale. Semplicemente non se ne parlava.

Torniamo sulla manifestazione aggressiva del disagio. Aggressiva in senso mortifero. Si è trattato di mettere fine in maniera consapevole a numerose vite, programmando il gesto nei minimi dettagli, lasciando messaggi videoregistrati di saluto alle rispettive famiglie prima di compiere quel gesto. Quella frustrazione legata al non sentirsi adeguati, prima per gioco e poi “traslata” nella realtà, “trasferita” nel qui ed ora del gesto finale. Sappiamo bene quanto il gioco in psicoanalisi sia importante e rifletta vissuti profondi del giocatore, consentendogli di mettere in scena quelle parti di sé che altrimenti non potrebbero esprimersi perché troppo impegnative per la portata delle emozioni che suscitano. Ma evidentemente il gioco non è bastato. Il messaggio non è passato. Invisibili erano e invisibili sono rimasti. Fino alla strage.

l’altro eri, martedì 24 Maggio 2022. “Usa, sparatoria in una scuola elementare in Texas: strage di bambini”.

21 morti, 18 bambini, due adulti, il killer, alla Robb Elementary School di Uvalde, in Texas. Salvador Ramos era uno studente di 18 anni, frequentava un liceo della zona e poco prima della strage aveva contattato una sconosciuta su Instagram dicendole di avere un segreto che voleva condividere: “sto per…”. Queste le poche informazioni sul ragazzo. L’ennesimo autore di stragi nelle scuole. Aveva postato un selfie e foto di armi, inclusa una foto con due fucili e per il suo compleanno ne aveva acquistati due. Magari nulla di strano, solo una grande passione per le armi da fuoco. Chissà.

Al momento fa riflettere la notizia in sé. L’ultima delle tante che l’hanno preceduta. Anche lui giovane adolescente, appassionato di armi e con la chiara intenzione di togliere vite. Anche lui ha scelto di comunicare il disagio in maniera esasperata e estrema togliendo qualsiasi possibilità di porre rimedio. Silenzi non ascoltati, il restare sulla superficie delle relazioni interpersonali perché entrarci costa anche tanta fatica e a volte dolore. Relazioni intese nel senso lato del termine, tra amici, amanti, colleghi, parenti…Viviamo “in connessione” e difficilmente ci siamo dentro.

Nel libro “lettera ad un adolescente”, Vittorino Andreoli scriveva: “Per oppormi al dolore della non comunicazione, ho deciso di scriverti.” Scrivere era l’alternativa, la possibilità di riscattarsi, di farsi capire diversamente, la possibilità di un cambiamento. Scrivere è tirare fuori ciò che dentro non può più restare.

Per Eric, Dylan, Salvador e tanti altri giovani adolescenti, invece, l’alternativa sembra non esistere, sembra essere inutile. È drammatico pensare che la speranza che qualcosa cambi non sia più contemplata. Si va oltre, si supera il pensiero. Soffro quindi agisco.

Sono segnali di allarme molto forti che meritano di essere presi seriamente. Imparare a dare ascolto alle proprie emozioni e a quelle degli altri, sentirsi accolti, rivalutare lo stare insieme e non favorire un individualismo asettico e superficiale. Educare ai sentimenti e all’ascolto.

Il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione.”

ZYGMUNT BAUMAN

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