di Giorgia Florissi
Il delitto di Simonetta Cesaroni è uno dei Cold Case che da decenni tiene con il fiato sul collo tutta Italia, una ragazza di appena 20 anni uccisa il 7 agosto 1990 con 27 coltellate, nell’ufficio in Via Poma dove lavorava. Il corpo venne ritrovato verso le 23, dopo che la sorella preoccupata dal fatto che Simonetta ancora non avesse fatto rientro a casa, si mobilitò già qualche ora prima nel cercarla.
Diverse sono le piste investigative che sono emerse in più di trent’anni, con svariati presunti colpevoli, tutti scagionati: Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile dove la ragazza venne uccisa; il datore di lavoro Salvatore Volponi; Federico Valle, nipote di Cesare Valle che viveva nell’edificio; e ovviamente anche l’allora fidanzato della vittima Raniero Brusco.
Le testate dei giornali 34 anni dopo l’omicidio impazziscono di nuovo: “Il killer è Mario Vanacore”, “il killer di via Poma è il figlio del portiere”.
Sarà lui il vero colpevole?
Ancora una volta la famiglia Vanacore è al centro del giallo di Via Poma, che tutt’ora non ha risposte né un colpevole.
Sono vari i presunti indizi che dopo più di trent’anni continuano a portare i sospetti su di loro.
Uno dei quesiti che ancora oggi permane è perché la moglie di Pietrino Vanacore, Giuseppa De Luca, il giorno del ritrovamento del cadavere, era in possesso delle chiavi dell’appartamento in cui venne rinvenuto il corpo di Simonetta, le quali avrebbero dovuto trovarsi in realtà all’interno, in quanto uscì fuori che oltretutto era un mazzo di chiavi di riserva e di solito rimaneva negli uffici.
Inoltre, la donna inizialmente si rifiutò di consegnare le chiavi alla polizia per accedere nell’ufficio dove la ragazza lavorava e dove venne trovata morta, facendo resistenza tanto che uno degli agenti di polizia sul posto dovette strappargliele dalle mani.
Per quanto riguarda il comportamento della famiglia Vanacore possiamo dire che il loro è sempre stato un atteggiamento ambiguo, sin dal giorno dell’omicidio, dal momento che in base alle testimonianze di chi era presente quel giorno alla ricerca della ragazza, ossia Paola Cesaroni, la sorella della vittima, accompagnata da quello che era allora il fidanzato di Simonetta e il suo datore di lavoro, si resero conto che qualcosa non andava nei loro modi di fare. A partire dalla lentezza di Giuseppa De Luca ad andare ad aprire il portone (lei e il figlio Mario risposero a questa “accusa” dicendo di non fidarsi perché non avevano riconosciuto nessuno nei soggetti che erano andati a cercare la ragazza), ad una prima esitazione nell’accompagnarli all’appartamento (li fece attendere tra i 10 e i 15 minuti), alla resistenza che fece nel consegnare le chiavi per aprire la porta dell’ufficio alle forze di polizia, al non mostrare alcun tipo di conforto alla sorella dopo la scoperta del corpo, fino al dichiarare, la stessa Giuseppa, di non conoscere la ragazza né sapere nulla, e infine la “scomparsa” di Pietrino Vanacore dalle 22 alle 23:30, in quanto non è mai stato chiarito dove fosse.
Tutta questa serie di primi indizi secondo i carabinieri già porta a vedere la famiglia Vanacore come coinvolta in qualche modo nell’omicidio di Simonetta, ipotizzando che tutte le azioni messe in atto dai coniugi possa essere stato in un modo o nell’altro un tentativo di ostacolare le indagini, forse per cercare di proteggere qualcuno a loro caro.
Tra gli altri particolari riemersi troviamo un’agenda dimenticata con la scritta “Lavazza” probabilmente sequestrata dalla polizia nell’ufficio che diventò dapprima un reperto, perché si pensava fosse uno degli effetti personali della vittima scoprendo solo successivamente che appartenesse alla famiglia Vanacore. L’ipotesi oggi fatta dai carabinieri è che Mario Vanacore entrò nell’ufficio della ragazza, pensando fosse vuoto, con l’intenzione di fare alcune telefonate, ma trovandosi di fronte la ragazza fu spinto dal desiderio di abusare di lei, facendola spogliare, nonostante non vennero però trovati segni di violenza, arrivando poi ad ucciderla. Ipotesi che però, senza elementi oggettivi, non convince proprio tutti.
Anche le tracce di sangue rinvenute sul telefono e sulla porta potrebbero essere, sempre secondo i carabinieri, tracce di Mario Vanacore che avrebbe lasciato le sue tracce, ad esempio, sul telefono per chiamare i genitori per chiedere aiuto, dopo l’accaduto.
Proprio basandosi su questi indizi, i carabinieri cercano di dare una risposta a tutti gli strani comportamenti che la famiglia Vanacore ha sempre tenuto nei confronti del giallo accaduto in Via Poma, sia, come abbiamo già detto, anche nei confronti della famiglia stessa, non mostrando mai empatia per la tragedia che stavano vivendo, né mai parole di conforto, nemmeno alla sorella Paola Cesaroni nel momento di ritrovamento del corpo. Un colpo di scena fu sicuramente anche la morte, per mano suicida, del portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, nel 2010, a pochi giorni dalla sua deposizione prevista per il 9 marzo, durante il processo a carico dell’ex fidanzato di Simonetta Raniero Brusco, assolto poi in cassazione.
Mario Vanacore, figlio del portiere, ad un intervista a “La Stampa” ribadisce di aver visto Simonetta Cesaroni una sola volta, quando era ormai morta, né di aver mai visto nemmeno quegli uffici, tirandosi indietro da tutte le accuse, affermando di essere già stato escluso come colpevole anni prima, e che si tratta solo di un accanimento nei confronti della loro famiglia, solo perché lui fu tra i primi a trovare il corpo.
Allo stesso tempo c’è aria di richiesta di archiviazione del caso da parte del Procuratore, i PM non ritengono ci siano prove sufficienti e richiedono l’archiviazione del caso.
Spetta ormai soltanto al GIP l’ultima parola. Dall’altro canto la famiglia Cesaroni, appoggiata sempre dall’avvocata difensore Federica Mondani, potrebbe presentare opposizione all’archiviazione, dando una spinta al continuo delle indagini per riuscire ad arrivare a dare un nome e un volto al colpevole della morte di una giovane ragazza di soli 20 anni, e non lasciare che rimanga per sempre un caso insoluto.