Ma TikTok è davvero così pericoloso?

da | Mar 20, 2021 | News

Ma TikTok è davvero così pericoloso?

da | Mar 20, 2021 | News

di Fabio Sanvitale

Igor ha 14 anni e vive a Milano. Lo descrivono così: affettuoso, intelligente, altruista, atletico, bravo a scuola. Eppure il 6 settembre 2018, a Milano, il padre Ramon l’ha trovato con una corda al collo. Un’ora prima di morire, dice la cronologia dello smartphone, ha visto un video su YouTube: “Le 5 challenge più pericolose che i ragazzi fanno su Internet”. Prende una corda da arrampicata e decide per una prova di autosoffocamento, usando il suo letto a castello. Il gioco è quello di arrivare alla soglia dello svenimento e tornare indietro. Ma se lo fai da solo ci puoi rimanere: è successo a tanti adulti che lo hanno fatto come pratica erotica. Per Igor è un’esperienza in più, un rischio in più. Forse perché ha 14 anni. Forse perché a quell’età ti senti invincibile. Forse perché uno che fa arrampicata non ha paura di cadere.

 

 

Invece Igor Maj (nella foto sopra) va qualche secondo oltre, scivola nel buio e non torna più indietro. L’inchiesta punta sull’autore del video, un 26enne di origini indiane residente a Mantova. Si ipotizza un reato difficilissimo da dimostrare, l’istigazione al suicidio. E infatti l’inchiesta viene archiviata: vero che le 5 pratiche erano spiegate per bene, vero anche che il video diceva di non farle. Non c’è dolo. E non c’è suicidio: semmai una morte accidentale. Igor non voleva uccidersi, ma è andato oltre non calcolando il rischio.

Antonella ha 10 anni e vive a Palermo. È il 21 gennaio 2021. Ha il cellulare da poco ma è fin troppo attiva sui social: 5 profili Instagram, diversi su Facebook, 1 su Likee e ancora altri su TikTok, dove ha profili da ancor prima di avere lo smartphone. Praticamente un lavoro. Il padre Angelo dice: “Rubava sempre il cellulare a sua madre e scaricava TikTok. Allora ci siamo arresi. Ballava e cantava, scaricava tutorial per truccarsi o per acconciare i capelli. Avrebbe voluto fare l’estetista da grande. Pubblicava questi video su TikTok ed era anche una bambina molto ubbidiente. Tanto che non ho mai avuto l’esigenza di controllarla e infatti non le ho mai sequestrato il cellulare per vedere cosa facesse. Perché tra noi non c’erano segreti”. Antonella (nella foto sotto) dice che va a farsi la doccia, ma invece in bagno fa anche lei la prova di asfissia con la cinta di spugna dell’accappatoio. Muore.

 

 

Viene sbloccato il suo cellulare: non si è filmata durante, come si era ipotizzato, né c’è traccia di chat con inviti a prove di resistenza. Insomma, non ha risposto a nessuna sfida. Come Igor. L’ha fatto per sé, pensando fosse un gioco divertente da giocare. E invece. In questo caso non si può nemmeno ipotizzare l’istigazione: ha fatto tutto da sola, anche se non si capisce dove e come abbia saputo dell’esistenza di questo “gioco”: un passaparola tra bambine, sembra. La sorellina infatti avrebbe riferito di aver assistito, non da sola, a prove di soffocamento: quindi ecco dove Antonella avrebbe pensato di volerlo rifare. I compiti, la cena, la prova di resistenza: una bambina di 10 anni ha affilato queste tre cose come se fossero tre eventi della stessa normalità casalinga.

Igor non era triste e problematico, Antonella non era triste e problematica, neanche la 12enne che è morta a Borgofranco di Ivrea il 14 marzo scorso lo era. Si è impiccata a una mensola con la cinta di un accappatoio. L’ha trovata il padre. In famiglia hanno dato subito la colpa a TikTok, ma nemmeno nel suo cellulare c’è traccia di una sfida accettata, di quei video.
Eppure subito tutti i media hanno trovato in TikTok il probabile responsabile: i tre morti sarebbero dovuti a una sfida di resistenza senza aria, nata nell’app. Poi vai su TikTok e questi video non ci sono. E quindi?

Certo, una volta visto cosa stava succedendo, i moderatori dell’app avevano già eliminato dai server tutti i video di sfide pericolose: ma se avessero circolato in passato sfide basate sul soffocamento, beh, quei file avrebbero comunque lasciato una traccia: ci sono stati mesi e mesi per ripostarli su altri social. Oggi però di questi video non c’è traccia nemmeno fuori da Tik Tok, quindi la domanda è: ma qualcuno li ha mai visti? Esistono? Dove sono? Tutti parlano di questa “blackout challenge”, ma qualcuno ha visto davvero i video? Se vai su TikTok e metti #blackoutchallenge o #hangingchallenge escono fuori qualcosa come 25 milioni di video. Ma non dicono di uccidersi, almeno a un primo esame.

Una blackout challenge prevede ad esempio che il video di una situazione, una qualsiasi normalissima situazione, venga improvvisamente spezzato da una schermata nera. Stop. Nelle hanging challenge si tratta di video in cui le persone fanno degli esercizi fisici (quasi tutti fanno le trazioni alla barra) e contemporaneamente fanno un’altra cosa che complica l’esercizio e lo rende pericoloso.

È evidente che non si tratta di una sfida suicida in nessuno dei due casi. Certo, non si può escludere che su 25 milioni di video non ce ne sia qualcuno che abbia rigirato la sfida in un’altra chiave, pericolosa fino a morirne, e che sia sfuggito al repulisti dell’algoritmo di TikTok. Ma colpisce che un video così virale non abbia lasciato tracce in nessun angolo del web. Al vostro cronista questa storia non può non ricordare una grande bufala: quella di Blue Whale, spacciata come mostro tentacolare dai russi (e da un servizio de Le Iene), quando non lo era.

 

 

Il giudice Cristian Barilli si è occupato del caso Maj: “Noi siamo partiti dall’ipotesi che gli episodi di cui stiamo parlando non siano esito di una volontà suicidaria ma siano tragici epiloghi di azioni pericolose che hanno portato al decesso di chi le ha intraprese. È per questo che, giuridicamente, non è possibile ipotizzare nessuna condotta volta a creare in altri la volontà di suicidarsi. Al massimo esiste una responsabilità colposa“. Il ragionamento di Barilli tiene: Igor non aveva manifestato nessun precedente desiderio di uccidersi, quindi come si fa a dire che quel video su YouTube gli abbia dato la spinta finale a farlo? Inoltre è stato visualizzato da un milione di persone, ma solo Igor è morto, il che vuol dire che non istigava. Comunque la girate, gli strumenti giuridici attuali non sono in grado di gestire queste situazioni, è un fatto.

Secondo un sondaggio on line (quindi da prendere con le molle, visto che è fatto molto alla buona) svolto da Skuola.net lo scorso gennaio, su 1.500 ragazzi di scuole medie e superiori, più di 1 su 6 conosceva la Blackout Challenge. Di questi, 1 su 5 – il 18% – affermava anche di partecipato. I numeri sembrano enormi e sono stati riportati da tutti i media senza che nessuno accendesse la calcolatrice. Ragioniamo: quel 18% è pari a 45 ragazzi, che sono il 3% del totale campione. Capisco l’allarmismo, ma parliamo del 3%, non del 30%.

Più interessante sono le motivazioni del 3%: fare un video da far diventare virale online (56%), divertirsi in modo alternativo (10%), provare la sensazione di incoscienza promessa (8%), stare male per saltare qualche giorno di scuola (5%). E poi ci sono quelli che invece non sanno nemmeno dare una spiegazione (21%).

Forse le vittime stavano troppo sui social? Dio solo sa se i genitori di Igor, Antonella e di Borgofranco avrebbero potuto fare qualcosa per impedirlo, perché è quasi impossibile stare 24 ore al giorno con la mano sulla testa del proprio figlio. Ma la domanda resta: quanto ci stavano? Cosa guardavano? E dunque, che dire? Adolescenti che si sentono invulnerabili ce ne sono sempre stati e ce ne saranno sempre, che sfideranno stupidamente la morte, anche. Il punto è che non bisognerebbe dare loro l’occasione di una sfida fatale, idiota, pericolosa.

Perché su quel milione che ha visualizzato “Le 5 challenge più pericolose che i ragazzi fanno su Internet” troverai sempre quelli che ci proveranno e uno che andrà oltre, che non saprà calcolare quando schiacciare il freno. Sono quei video che non dovrebbero esistere, alla radice, e qui torniamo al controllo dei contenuti, problema irrisolto di ogni social. I bambini, è brutto dirlo, sono sempre morti in incidenti in cui si sfidavano tra loro per essere più adulti o per fare esperienze: annegati nei fiumi, caduti da impalcature, giocando con la pistola incustodita di papà. Cosa vuol dire questo? Che si è sempre scritto, purtroppo, di “un tragico gioco finito male”.

Solo che oggi gli stessi bambini non devono scomodarsi a cercare un fiume, un cantiere, un’arma. La voglia di sfida viene stuzzicata direttamente sul loro cellulare.

La colpa non è di Tik Tok o di qualsiasi altro social, così come non è del fiume, né dell’arma in sé. Anche perché un controllo umano su milioni di video caricati è impossibile e non esiste algoritmo in grado di risolvere il problema. E allora torniamo a chi deve o dovrebbe vigilare su questi famosi bambini. Che sono i nostri.

 

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