I sopravvissuti, alla morte di un figlio, si trovano a dover fronteggiare insidie che con il tempo e la negazione potrebbero lasciare terreno fertile a manifestazioni più o meno gravi di un disturbo psichico. La morte perinatale ed il lutto che ne consegue sono momenti delicati in cui la coppia genitoriale perde l’equilibrio, l’appiglio, la speranza, l’identità.
Argomento in larga parte indicibile, raramente ci si concede il pensarlo, poiché genera una profonda angoscia. È una minaccia al proprio senso di sé. Si possono attivare categorici rifiuti, desideri di sdrammatizzare, di consolare, di riparare magari con l’idea un nuovo concepimento, o di riversare le attenzioni sugli altri figli.
Non esistono termini volti ad identificare il genitore il cui figlio è morto, a testimonianza di quanto sia difficile poter inserire in una categoria ben definita il sopravvissuto. Probabilmente il ruolo di genitore se ne va con la morte del figlio.
Quando ciò avviene dobbiamo immaginare che la morte di quel figlio tanto atteso non possa essere pienamente compresa. Ci si accontenta di tentare l’impresa inserendosi il più possibile in punta di piedi nella storia specifica di quella famiglia, di quei genitori, di quel concepimento, di quella venuta al mondo e del loro profondo legame. Se la morte del figlio avviene in epoca perinatale l’evento traumatico porta con sé un alone di indicibilità ancora più pesante.
Nonostante tutto e incuranti di qualsiasi stigmatizzazione, si fa strada urlante e disperata la richiesta dei genitori di poter invertire l’ordine di nascita e morte. Riconoscendo legittimamente l’evento come un reale lutto che merita altrettanto rispetto. Il lutto di un bambino mai nato.
Dal desiderio al progetto, un vortice di emozioni positive.
Tutto ha inizio da un desiderio, che si fa strada tempo prima del concepimento oppure, che si presenta con irruenza quando una madre per la prima volta incontra lo sguardo del proprio figlio. Il progettare il concepimento è solo un passo successivo al complesso lavoro mentale e su sé stesse per giungere al sentirsi autorizzate a pensarsi come madri.
Avrà così inizio un lungo viaggio di re-interpretazione di sé stessi e della propria identità fantasticando di come ci si potrà sentire nel nuovo ruolo di genitore, immaginando presi da un turbinio di forti emozioni quelli che potranno essere i timori e le gioie di diventare genitori. La fervida immaginazione sollecitata dalla felicità di un evento così importante porterà persino ad immaginare come potrà essere il futuro nascituro, il colore degli occhi, la forma delle labbra, il suo sorriso, il suo carattere, i primi passi e così via.
Trasportati da un vortice di emozioni, suoni, profumi, colori, pensieri e cantilene silenziose, testimoni della felicità più intensa mista a quel sano timore di non essere all’altezza.
Poi il buio. Improvviso, inaspettato. Tutto si ferma. Silenzio.
La morte perinatale ribalta tutto. Quel mostro oscuro che si presenta senza essere stato invitato alla festa che da mesi gonfia il cuore dei genitori di sentimenti gioiosi. La madre vorrebbe “non essere”, odia sé stessa e quel (maledetto) corpo nel quale è intrappolata. Rifiuto, vergogna, colpa, rabbia, frustrazione, sono il vuoto di quella madre che non è stata sufficientemente buona. Sfiducia e svalutazione di sé per non aver saputo proteggere la creatura che portava dentro. Lei, nemica di sé stessa.
Il mondo interno e quello esterno si sono fermati, si sente sola, impaurita, giudicata per essere colei che ha partorito la morte. Il silenzio può durare giorni, settimane, mesi, Demetra dinnanzi a Persefone. L’assurdo alternarsi dell’inverno all’estate.
Poi la rigenerazione, il coraggio di rialzarsi, combattere e vincere. Una vittoria su sé stessi, sul rispetto che ci si deve, perché nonostante tutto quella madre non ha colpe.