Kitty

da | Feb 7, 2021 | News

Kitty

da | Feb 7, 2021 | News

di Armando Palmegiani e Fabio Sanvitale

“Kitty” è un racconto ispirato a una storia vera, quella di Kitty Genovese, avvenuta a New York il 13 marzo 1964, nel Queens. Abbiamo solo immaginato di poter tornare indietro nel tempo. Tutto il resto è rigorosamente vero.

Scale buie, grigie.

Rumore di bambini che piangono in lontananza.

Cigolii di porte, in sottofondo una radio che gracchia una canzone, forse sono The Beach Boys  che cantano “Surfin’ U.S.A.”. Maledizione ladra, l’ascensore non funziona proprio oggi. Ansimo una parola sporca.

“Fabio… ma sicuro che è qui, ma ci hai parlato”.

“Penso di sì, dev’essere lei, non è che si sentiva molto. Qui le linee non sono buone come in centro. Però il contatto è sicuro, me lo ha dato Martin, il mio collega del New York Times. Hai presente Martin?”.

“Allora possiamo stare tranquilli… Ma lo troviamo sicuro, questo Mike, vero? Ti ha risposto al telefono?”.

“Gesù Bambino, me lo avrai chiesto almeno quattro volte. Sì, una telefonata surreale: dopo avermi risposto mi sono trovato subito a parlare con la madre, d’altronde ricordati che lui ha 15 anni. Poi sinceramente con questi nuovi telefoni non è facile parlare, più comodi sicuramente, ma non si sentono come quelli che avevamo prima”.

“Eh, adesso vieni a dirmi che non ti piacciono, ma se prima dovevamo urlare per farci sentire ogni volta che bisognava chiamare Hoboken! Ed è solo dall’altra parte del fiume”.

Dieci piani ed un consistente rischio d’infarto dopo, bussiamo alla porta con sopra, in ferro dorato, il numero 1516. Ci viene ad aprire la mamma di Mike, la signora Hoffman insomma. Non ha proprio l’aria amichevole. Anzi, nemmeno un po’. E infatti, non ci offre nemmeno una birra, che anche se è quasi fine marzo ci starebbe bene lo stesso.

“Non so nemmeno perché vi faccio parlare con Mike.Questa storia non mi piace affatto, da quando è esplosa la notizia che mio figlio forse è stato l’unico a dire un qualcosa alla polizia, quella notte, la gente ha iniziato a guardarci male, ma vi pare possibile? Invece di ringraziarlo”.

“E’ proprio per questo che ha accettato di incontrarci, signora. Mike è stato l’unico a dire qualcosa, quella notte. E’ stato tutto assurdo, suo figlio non doveva essere l’eccezione, non con quello che accadeva qui davanti”.

Arriva Mike, un frugolino coi capelli biondi a caschetto che ci saluta, ma ci guarda con aria sospetta. Forse questa storia l’ha segnato molto più di quanto pensassimo. Pensa se sapesse che io lavoro al Tredicesimo Distretto di Polizia, giù alla Ventunesima Est. Fortuna che giro in borghese. E che oggi sono fuori servizio. 

“Mike, ci racconti di quella sera?”.

“Gridava”. Silenzio. “Gridava”.

E’ la descrizione di un attimo che è durato minuti. Di un tempo infinito. Di qualcosa che non ha mai avuto i confini dell’umano e invece lo è.

 

“Insomma, almeno Mike ha provato a gridare qualcosa dalla finestra, un minimo d’intervento ha provato a farlo, no?”.

Siamo appena usciti dal portone dei Mowbray Apartments. 

“Sì, un minimo, almeno ha gridato dalla finestra”, risponde Fabio.

“Se chiudo gli occhi mi sembra di vedere Kitty, quella sera di una settimana fa”.

Kitty: la ragazza con gli occhi piccoli e le sopracciglia nere, intense. E i capelli corti, un po’ spettinati, moderni. Non esattamente l’immagine della buona moglie con il grembiule, che mette in forno il tacchino con le patate. Kitty. Quella del bar.

“Ma come è potuto succedere? Il palazzo è immenso. Era pieno di gente. E’ successo su quel marciapiede”. Fabio indica dall’altra parte della strada.

Esce una signora col passeggino della spesa. E’ tutto così ordinario, incredibilmente ordinario; eppure la morte è passata di qui. Il palazzo è qui, davanti a noi. Immenso, il Mowbray, da cui siamo appena usciti, è il classico colosso di brownstones, coi mattoncini a vista. Ma ha qualcosa di diverso. Non ha i soliti tre-quattro piani. Questo ne ha non so più quanti. Dieci? Venti? E’ come una minaccia, è come se ci guardasse. E poi, quelle finestre. Strette e larghe, alternate, come enormi bocche aperte e chiuse verso di noi. Quello strano portone, con una forma a U rovesciata, come qualcosa che ti risucchia proprio nel ventre, in questa grande pancia di mattoni.

Ma forse è solo suggestione. Forse questa è solo un’altra storia del Queens; e quando penso che facevo pattuglia qui, non so perché, la prima cosa che mi viene in mente sono i bidoni di spazzatura rovesciati e le zuffe dei ragazzi sotto i lampioni. Però ora fa freddo. E mi copro, che ho i brividi. 

“Kitty ha iniziato a morire lì”, dice Fabio, indicando ancora il marciapiede opposto. Non ha mai smesso di guardarlo. 

 

I miei colleghi hanno ricostruito la storia. Hanno avuto una settimana per riempire i loro taccuini di fitti segni a matita. Di fare la piantina della scena del crimine a china. “Raccontamela ancora”, dico a Fabio. “Qualcosa non mi torna”.

“Passi sul selciato, sono le 3 e un quarto di notte, Kitty ha appena parcheggiato la sua auto qui, sulla Austin Street. Pochi passi e finalmente sarebbe giunta a casa dopo un’altra infinita giornata di lavoro al bar. Ad attenderla c’è la sua compagna Mary Ann, che tra l’altro è anche socia del posto …che si chiama… aspetta, è l’ ‘Ev’s 11th Hour Sports Bar’, sulla Jamaica Avenue, a poche miglia di distanza. Che poi, anche qui: se avesse parcheggiato sotto casa non sarebbe mai successo. Quando dicono che il caso non esiste… Sai perché invece l’ha messa nel parcheggio?”.

“Perché?”.

“Perché non voleva svegliarla, non voleva svegliare Mary Ann”.

“Non ho parole”.

“Era proprio ora di tornare, Mary non ce la faceva mai ad aspettarla alzata. Mentre sta raggiungendo la sua abitazione, a che pensa Kitty? So che non c’entra con la nostra indagine, ma voglio credere che sulle sue labbra sia apparso un sorriso, che abbia ripensato che da quando hanno aperto quel bar, praticamente, con la sua compagna non si vedono più, se non la domenica: quando è chiuso per riposo settimanale. Però ogni giorno di più lì dentro l’avvicina al suo sogno: trasformare il bar in un ristorante. E’ con quell’idea che è restata qui a New York. La sua famiglia era di qui, ma la mamma era stata testimone oculare di un omicidio, non se lo levò più dalla testa e non voleva far crescere i suoi figli in una città così. E disse: ce ne andiamo in Connecticut. Kitty rispose: no, io resto. Ho un sogno. Arrivò qui, a Queens, che è come vivere in una città dentro la città. Gesù, lo sai che questo quartiere è grande quanto Houston. Ti ci perdi. A questo punto…”.

Lo interrompo. “Scusa, hai detto compagna? Ecco cos’era! L’avevo rimosso, mi faceva strano. Ecco cos’era!”.

“Ma cos’era che? Non lo sapevi che stava con una donna?”.

“Sì, ma ti rendi conto di cosa significhi essere lesbica qui, al Queens?”.

“Significa un sacco di casini. Certe raffinatezze le accettano solo nei quartieri alti, dove diventa un bel segreto alla moda. Qui mi immagino gli sguardi e i commenti. Anzi, non li immagino, li so”.

“Esatto e io credo che tutto questo c’entri con la sua morte. Questo suo essere autonoma, fuori dagli schemi. Vai avanti, poi ti spiego perché”.

“Allora, forse Kitty sente una portiera che si chiude in lontananza. Forse non ci fa caso. Vieni, attraversiamo la strada, andiamo dove tutto è iniziato”.

Eccoci qui. Austin Street. A sinistra della strada, i Mowbray Apartments. Dove c’era Mike alla finestra. A destra, il Tudor Building dove abitava Kitty, con Mary Ann, da un anno. La sua porta, la sua salvezza, è sul retro del Tudor. Stranissimo anche il Tudor: nel centro del Queens, un edificio di stile inglese del Cinquecento, di quelli con le travi di legno quadrato a vista sulla facciata bianca. Col tetto spiovente. Bianco e nero. Negozi e un piano di abitazioni, di fronte al Mowbray. Assurdo, sembra il set di un film. Totalmente fuori tempo, fuori posto. E’ tutto sottosopra, in questa storia.

“Kitty cammina verso casa, giusto? Dio solo sa perché, appena uscita dal parcheggio, che come vedi è parallelo al Tudor, invece di girare subito a destra per portarsi sul retro dell’edificio, continua a camminare sulla strada. Forse vuole girare ma più in fondo, quando l’edificio finisce. O forse questo è semplicemente il percorso più in luce. Quello più sicuro”.

“Se solo avesse saputo”.

“Sente un eco lontana di passi, è notte ed è una bella ragazza sola, ma che paura poteva avere, era nata a Brooklyn, figurati. I passi aumentano di frequenza e sembrano più vicini.

Ma Kitty ha altro a cui pensare. Supera il Drugstore. In fondo, restare a New York è stata la soluzione più logica, con il tempo la mamma avrebbe capito che le sue preferenze erano rivolte alle donne, chissà se un giorno cambierà questa mentalità. Per ora la mentalità è quella protestante e radicata, non esiste nemmeno pensarlo. Restare a New York significa essere sé stessa, andare nel Connecticut sarebbe stata la morte”.

“Ma poi vogliamo mettere Brooklyn con Queens, tutta un’altra cosa! Per esempio a Brooklyn ci si sarebbe spaventati subito sentendo dei passi dietro, magari ci si sarebbe girati di scatto per vedere da dove veniva il pericolo, a Brooklyn capita spesso. Qui no, è un quartiere tranquillo, ok, una distesa di palazzoni, una sterminata pianura di lavoratori latinos, poi noi italiani, gli africani, gli asiatici, tutta brava gente comunque”. 

“Ecco. Di colpo. Si gira e lo vede. Vede lui e la vetrina accesa del Bookstore. Corri Kitty, corri, che tu sia nel Queens, a Brooklyn o Manhattan, corri più forte che puoi. Il caldo affonda nella pelle. Corri ancora, in fondo, all’angolo, c’è il Call Box della polizia, quel lampioncino basso, tondo, nero e bianco, è la tua salvezza, se arrivi lì e premi il pulsante rosso una pattuglia arriva. Corri, Kitty.

Ma cos’è, non può essere vero… adesso sente la spalla pulsare, poi il dolore sale di botto. Una fitta qui, cosa…ora toglie il fiato… cosa può essere stato.. ora vede nero.

Si gira e vede lui.

Grida, grida più forte che può, grida nonostante i polmoni non riescano a prendere aria”.

“Sì, dev’essere andata così. Al Call Box non c’è mai arrivata. Il primo sangue viene trovato qui, sul selciato. Questa è la coltellata alla schiena”.

“Esatto. Qui c’è una specie di colluttazione con l’aggressore. Per lei, uno sconosciuto. Gli prende il braccio, glielo tiene, lotta, grida. Lo sbilancia, ma non lo mette in fuga. Mentre sta cadendo a terra, vede delle finestre illuminarsi, forse due, tre. Si sente un grido dalla luce gialla di una finestra: “Ehi, che stai facendo? Smettila, che chiamo la polizia!”. 

“E’ Mike che grida”.

“Sì. Credo che Kitty sia rimasta sconcertata, qui. Ma come, lei ha appena preso una coltellata e quel ragazzino urla come se ci fosse una lite a pallone? Ma non ha capito che l’ammazza?

Adesso lo vede bene, il tipo col coltello. Ha le spalle al muro. Alto, di colore, la bocca un po’ storta, sembra che sorride. Tutto il fiato che aveva, tutta la forza l’ha utilizzata per chiamare aiuto, ma troppe cose avrebbe voluto chiedergli. Non capisce, lui è di colore, lui sa cosa significa essere discriminati, anche a New York, perché dovrebbe prendersela con lei, ma lo sa lui quanto ne ha passate? Ogni volta che rientra a casa con la sua compagna, ogni volta che il postino le consegna una lettera dei suoi, tutti sguardi che giudicano o, peggio, sguardi di persone che ritengono, solo perché le piacciono le donne, che lei sia una donnaccia. Una donna che va con un’altra donna può andare tranquillamente con tutti. 

Altre coltellate, la lama che le taglia i polpastrelli, ci sta provando in tutti i modi a vivere, Kitty. Se non le mancasse il fiato, se il dolore non le paralizzasse il cervello riderebbe, colpita da uno ai bordi dell’esistenza come lei, ti sembra possibile? Ma i miracoli succedono e l’uomo scappa. Sente le sue scarpe pesanti che corrono via, sente quella portiera sbattere ancora, sente un auto che riparte e sgomma via. Tutto è finito.

Tra poco qualcuno la aiuterà, basta aspettare un attimo e quelli che hanno gridato scenderanno a soccorrerla, basta avere pazienza, arriveranno… “.

“E invece non arriva nessuno, ma hanno capito che si sta dissanguando? Hanno capito che sta perdendo i sensi, aiutami Mary …aiutami tu. Ora le fitte sono robe che la spaccano in due. Fa fatica ad alzarsi. E’ una sfida immensa. Prima su un fianco, poi un ginocchio, poi l’altro, poi si mette dritta…ma che dritta, riesce a camminare solo appoggiata al muro. E gocciola, Kitty. Gocciola rotonde macchie di sangue. Quelle che abbiamo trovato”.

Il tempo passa e nessuno arriva, Kitty capisce che ha una sola salvezza: andare a casa.

“Venti-trenta metri, c’erano solo venti-trenta metri, Fabio…d’altronde casa era dietro l’angolo, Kitty sa che ci metterà tanto ma che ci arriverà, vuole vivere, ha troppe cose da fare che cedere la sua vita a un pazzo…passo dopo passo, goccia dopo goccia, arranca nel silenzio della notte. Non riesce a stare in equilibrio. Quanto ci ha messo a tornare indietro verso il Drugstore, a girare l’angolo, a girarlo ancora? Te lo dico io, un quarto d’ora sicuro. Sai che vuol dire? Che ci ha messo due minuti per fare ogni doloroso metro di questo marciapiede. Gira l’angolo, adesso mancano dieci metri, ce la può fare. Mary si prenderà cura di lei, chiamerà i medici”.

“Aspetta, in quel momento gira l’angolo… quindi esce dalla vista del Mowbray Apartments, dove abitano praticamente quasi tutti i testimoni oculari, quindi non la vede più nessuno e nessuno riesce a sentirla…”.

“Sì, quel momento, quel momento di salvezza, per assurdo, segna la sua fine”.

“Ora mancano una ventina di metri, ha svoltato il secondo angolo, il Coffee Shop è chiuso, se ripensa che ha contribuito lei a farlo chiudere a mezzanotte, reclamando con tutti i coinquilini per via degli ubriachi che gridavano a qualunque ora della notte… Ma è proprio lì che Kitty sente. Di nuovo una fitta atroce alla schiena. Stavolta il coltello l’ha proprio sentito entrare. Cade sulle ginocchia. A tre vetrine dalla vita.

Tutto quello che ricorda, dopo, è che qualcuno-qualcosa l’ha tirata dentro il portone più vicino. Ha sperato che fosse un soccorritore. Ha sempre più lo sguardo annebbiato. Ha sempre meno forza. Le mani si muovono nell’aria ma non acchiappa niente. Il tizio l’ha portata nel portone, al sicuro. Poi le slaccia i pantaloni. Poi le abbassa le mutandine. Poi, il buio più profondo che si possa avere. In tutto, dalla prima coltellata, è passata mezz’ora”.

Siamo tornati davanti ai Mowbray Apartments.

 “Adesso con chi dobbiamo parlare?”

“Robert Mozer”.

“Ma non è quello che gridò durante il primo assalto?”.

“Proprio lui. Lui e Mike furono sicuramente quelli che fecero qualcosa, in quel momento”.

Mentre saliamo al settimo piano dell’immenso condominio passiamo davanti a una fila di porte tutte uguali. Chissà da dove, arriva il ritmo di “My girl”. 

“Forte, eh? I Temptations mi fanno impazzire” dice Fabio.

“Ma come fai a pensare alla musica in un momento come questo?”.

“Non so, mi rilassa. Quel pezzo ha un ritmo!”.

E suoniamo ad un campanello che riporta il nome sbiadito di Mozer. Non era così scontato che volesse parlare con un giornalista come Fabio, dopo quell’articolo del New York Times: “Per più di mezz’ora trentotto rispettabili cittadini, rispettosi della legge, hanno osservato un killer inseguire e accoltellare una donna in tre assalti separati a Kew Gardens”.

Ma Fabio l’ha convinto, dicendogli che voleva sentire la sua versione. Due passi dentro il suo appartamento e vediamo che la sua finestra è praticamente davanti a dove venne aggredita Kitty la prima volta. E’ un tipo alto e stempiato, con gli occhiali da presbite sul naso e le bretelle nere sulla camicia bianca.

“Vi dico subito che ho fatto tutto quello che potevo fare, venite a vedere. Ah, io a quello del Times gli metterei le mani al collo! Mi ha diffamato, ci ha diffamato! Con me non ci ha mai parlato, eppure sarei uno di quelli che non ha fatto nulla per quella ragazza! La scena che ho visto era proprio qui sotto, vedete? Però mi trovo pure al settimo piano, vedete quanto siamo alti? Ed erano le tre di notte. Quella notte stavo dormendo e sento gridare “aiutami, aiutami”, così, tipo un paio di volte. Mi alzo a stento, apro la finestra e vedo qualcuno a terra, sì mi sembrava una donna; e vedo una figura a cavalcioni. Poi mi racconteranno che l’aveva accoltellata, ma certo quando mi sono affacciato questo era già successo. Tra l’altro, li vedete gli alberi? Non è che si vede bene, da qui! Insomma, ho gridato di lasciarla in pace, ho urlato molto forte per farmi sentire, visto il settimo piano. Beh, insomma, ho sentito un po’ di finestre tirarsi su. Volevo solo che la smettessero”.

“Ma a lei che sembrava che stesse avvenendo?” chiedo io, mentre Fabio prende nota col lapis di ogni parola di Mozer.

“Mah, ho pensato a una lite o a un tentativo di scippo, non si capiva. Più una lite, magari tra una coppia di ubriachi. Con tutti i bar che ci sono qui intorno…”.

“E poi?” chiede Fabio.

“Il tizio mi sembra di ricordare che corre via, sì corre via in direzione del parcheggio. A quel punto ho preferito richiudere la finestra e andare a dormire, questa non è una brutta zona, ma ho imparato a farmi gli affari miei. E poi mi sembrava che fosse tutto a posto, di aver risolto. Dopo pochi minuti però non riuscivo a prendere sonno, avevo pure una sensazione strana, ho riaperto la finestra: e non c’era più nessuno. Nessuno”.

 

Salutiamo. Usciamo. Abbastanza ammutoliti.

Scendiamo le scale. Fabio si blocca su un ammezzato, davanti al muro verniciato di bianco. “Cioè, va bene che vedeva male e da quella distanza non si capiva bene, ma il dubbio che la donna fosse una vittima gli è venuto. Se ho ben capito, il succo è che è meglio farsi gli affari propri”.

“Sì, il discorso di Mozer è questo. Invece di preoccuparsi della donna, mettersi le sue fottute scarpe, ha preferito far finta di nulla. Posso capire Mike, ha 15 anni, ma Mozer no, non si può accettare”.

“E non è stato il solo: ne ho trovati altri tre. Una ragazza francese, una certa Andrée Picq, abita al quarto ma sull’altra scala. Dice le stesse cose. Anche lei è tornata a dormire. E uno che si chiama Joseph Fink. Anche lui ha assistito al primo attacco ed è tornato a dormire. Poi ce n’è un altro, Karl Ross. Con questo ci dobbiamo proprio parlare, anche se gli metterei volentieri le mani addosso”.

“Perché?”.

“Perché era proprio a un metro da Kitty, durante il secondo assalto”.

Non riesco a rispondere.

 

Siamo seduti al Coffee Shop di Ed, all’angolo, a cinque metri dal portone in cui Kitty è morta, guardiamo basso il tavolo col posacenere in metallo. Non abbiamo nemmeno fame; e dire che s’è fatta l’una. Il cielo annuncia pioggia. Al muro una pubblicità della Coca Cola con le lettere svolazzanti nere e quella ragazza che sorride fiduciosa sulla spiaggia, con una bella bottiglietta in mano e l’ombrellone bianco, inclinato.

Fabio va al telefono a gettoni a chiamare la redazione. 

Torna. Lo guardo con aria interrogativa. 

“C’è qualche novità. Allora, le prime telefonate di aiuto fatte a voi quella notte sono molto confuse e il Capitano del distretto ha detto a un nostro reporter che fu per questo che non dettero priorità alla faccenda. Arrivarono già dopo il primo attacco, ma ad esempio una diceva che una donna era stata picchiata selvaggiamente ma si era levata in piedi e barcollava intorno. Altri parlarono solo di una lite, altri di due ubriachi, altri di schiamazzi di gente fuori dal bar. Dopo un po’ Kitty aveva girato l’angolo per cercare salvezza e quindi era fuori dalla vista di tutti, sembrava tutto finito. E invece…”.

Quindi c’è stato chi ha chiamato noi”, dico fissando una mug sbrecciata, fumante di caffè.

Il pensiero che ghiaccia la ragione. Paghiamo e usciamo. Kitty voleva questa città. Ma andava protetta dal suo desiderio, perché l’avrebbe uccisa.

 

“Ero molto amico di Kitty”. Sembra che lo dica quasi per scusarsi.

Ha la faccia larga, i capelli con una riga che li getta decisamente da una parte e un naso un po’ schiacciato, Ross. Sta seduto al tavolo della dining room, ancora con un pigiama a righine grigie addosso e qualche copia del “Reader’s Digest” sparsa intorno.

“Il primo attacco l’ho sentito, ma ero troppo ubriaco per fare qualcosa, così non ho fatto nulla. Non ho aperto la finestra, ma ho sentito la sua voce”.

“Come ha fatto a non aprire la finestra? Come? Ha appena detto che era sua amica” gli chiedo.

“Non so, forse …”.

“Vada avanti”, gli dice gelido Fabio.

“Sembrava tutto finito, ero di nuovo sdraiato con una gran voglia di vomitare. Poi, di nuovo le urla. Di nuovo Kitty. Ma stavolta, dietro la mia porta. Non riuscivo a capire, mi sembrava di averla dentro casa, sapevo dove abitava, c’ero stato a casa loro, ho pensato che fosse venuta da me a cercare aiuto. Ho barcollato fino alla porta, la sentivo mugolare e qualcun altro ringhiare. Aprii la porta. Era lì, sul mio pianerottolo, a un metro. Lo vidi che le infilava il coltello dentro. Fui ricolmo di terrore, chiusi la porta al volo”.

“Cosa fece? Niente?”.

“No, macchè…chiamai un amico giù a Long Island, gli chiesi che dovevo fare e quello mi consigliò di farmi i fatti miei. Poi a un altro amico che abitava qui, qui al Tudor. Mi disse di uscire e fare qualcosa. Sgaiattolai fuori dalla finestra, sono al primo piano, urlai con tutto il fiato che avevo…”.

“…Ma la sua finestra è dalla parte opposta, è su Austin Street” gli dico piazzandogli gli occhi in faccia. Ross, per paura di essere accoltellato lui, aveva lasciato che accoltellassero Kitty.

“…Sì…”. Mi alzo e vado alla finestra. O sto qui o gli piazzo un cazzotto in faccia. Sento la voce di Fabio dietro di me.

“Poi?”.

“Poi ho chiamato la polizia”. Alleluja.

 

Di nuovo di fronte al Tudor. Primo pomeriggio. Cadono le prime gocce.

“Se ci chiamano tutti come ci ha chiamato lui, quando non serve più, stiamo freschi. Ecco perché Kitty è morta”. Sono livido.

“Non ti sei accorto di niente?”.

“Di cosa dovevo accorgermi?”.

“Ross è gay”.

Fabio sorride. “E’ anche per questo che ha esitato. Sapeva che quando ne beccate uno, il primo colpevole di qualsiasi cosa è lui, anche se è solo un testimone. Non è una scusante, ma fa il paio con la tua intuizione di prima”.

“Come si chiama quella che invece l’ha soccorsa?”.

“La vicina, Sophia Farrar… corse ad aiutare Kitty e la sorresse mentre moriva. Pensa, una donnina di un metro e cinquanta che ha avuto più fegato di quelli che abbiamo intervistato finora e che alle 3:30 del mattino, senza sapere a cosa andava incontro, senza pensare che quell’uomo poteva essere ancora lì, si è fiondata giù per aiutarla”.

“Questo però il tuo amico Martin nel suo articolo non ce l’ha messo”, sorrido amaro.

“No. Gli avrebbe rovinato la storia perfetta dei 38 testimoni che non hanno fatto nulla”, risponde Fabio a mezza bocca.

 

Ormai c’è il diluvio universale là fuori. Ma a marzo le piogge non dovevano essere degli acquazzoni e basta? Ci siamo dovuti riparare.

“Mi domando: se ieri non fosse andata così, l’avreste mai preso?”, dice Fabio.

“Sì, sicuramente sì. Non adesso magari, ma prima o poi sì. La morte di Kitty ha commosso tutti, hai visto che casino è successo…solo una cosa: mi domando come mai ha confessato. Conoscendo il tipo, non certo per rimorso”.

“Se ripenso a come è stato catturato, proprio poco dopo pranzo … a Corona Queen vedono uscire un tipo di colore da un appartamento, con un televisore tra le braccia. Un vicino gli domanda il motivo e il tizio risponde che sta aiutando i vicini a traslocare. Allora il tipo decide di avvertire la polizia, sapendo che non c’era nessun trasloco in atto da parte dei vicini”.

“A quel punto viene il bello”.

“Sì, perché il nero deposita il televisore all’interno della propria auto… però non riesce a partire per un guasto improvviso e quindi scappa a piedi. In quel momento sta arrivando una pattuglia che lo ferma e lo arresta”.

“Comunque tutto avrei pensato, conoscendolo –t’ho detto che l’avevo incrociato durante qualche suo arresto, no?- tranne che potesse essere un assassino. Sposato con due figli, un lavoro”.

“Sai quanti ce ne sono! A proposito, che lavoro faceva? Metteva timbri da qualche parte o sbaglio?”.

“Ma no, è quella strana tecnica che hanno inventato da poco, invece di scrivere su un bel quadernone di carta i turni, gli orari di una società, si bucano dei cartoncini e si infilano in una macchinetta che, oltre fare un rumore del diavolo, dovrebbe aiutare a gestire le cose. Lavorava in una ditta e usava questo aggeggio qui”.

“Assurdo, a parte che non sanno più cosa inventarsi, ma pensi che possa funzionare una cosa del genere? Macchine che sostituiscono l’uomo per fare la registrazione di dati, di fatture. Fare i buchi su una scheda pensi che possa essere più rapido di scrivere a mano? Mah. Dagli ancora qualche anno e vedremo, queste macchine calcolatrici faranno una brutta fine, credi a me. A parte questo, quando sento frasi come ‘era così brava persona, amava i cani, aveva dei bambini’…sai che non ci credo mai. Gli assassini seriali, ricordati, hanno iniziato sempre da una vittima singola. E infatti nei pochi giorni dall’omicidio di Kitty a quando è stato scoperto, il tipo aveva ucciso di nuovo, due volte, sempre a sfondo sessuale, ricordiamocelo. Un serial killer”.

“Che poi, assurdo, a pensare a quello che succede dopo l’omicidio, quella notte”.

“Sì, impensabile, lui che sta ritornando a casa e si accoda a una Cadillac, al semaforo. Diventa verde, ma il tizio della Cadillac non si muove: si era addormentato. Il nostro omicida nemmeno suona per avvertirlo, aspetta almeno due giri di semaforo, poi scende e gentilmente picchietta sul vetro per svegliarlo, con la massima cortesia”.

“Un delinquente lo era, ma io credo che le sue tendenze omicide fossero latenti. È come se fosse esploso la notte di Kitty”.

“Hai letto la confessione? Quando gli chiedono del movente e lui risponde ‘volevo uccidere una donna’. Così, semplicemente. S’era alzato alle due di notte, aveva lasciato la moglie a letto ed era uscito cercando una vittima. Era finito in Austin Street per caso e aveva visto Kitty uscire dal parcheggio. Gli sembrò che andasse bene e la seguì. Ed è davvero tutto qui, non è che fai ‘sto massacro per i soldi. Le ha rubato 49 dollari. Dico, 49. Ma in realtà voleva fare sesso e violenza”.

Grosse gocce scendono lungo i vetri di Ed. E’ quasi ora di cena e non riusciamo a lasciare il Tudor Building. A lasciare Kitty.

Decidiamo di ordinare due hamburger. In fondo, oggi non abbiamo mangiato nulla. “Comunque ancora non posso crederci che sia andata così, trentotto testimoni e soltanto uno che chiama la polizia”, Fabio mi guarda sbalordito. “Forse ha ragione Ellison quando oggi scriveva di 38 ‘figli di puttana’ ”.

“Dove? Non l’ho letto”. 

“Su ‘Rolling Stone’ ”.

“Ma in realtà proprio 38 non erano, il tuo amico Martin ha fatto il grande titolo, ma alla fine quelli che si accorsero che stava succedendo qualcosa saranno stati al massimo dodici. Nessuno dei testimoni ha osservato gli attacchi per intero. A causa della configurazione dei due palazzi e del fatto che gli attacchi si sono svolti in punti diversi, nessun testimone ha visto l’intera sequenza. La maggior parte ha solo ascoltato (nemmeno visto) degli spezzoni, senza capire cosa stesse succedendo; e nessun testimone ha visto lo stupro e l’attacco nel portone…tranne Ross. Trentotto furono le chiamate che ci arrivarono nel periodo, ma alcune riguardavano altri fatti, come schiamazzi notturni, che stavano accadendo nelle vie intorno. Altri testimoni videro l’assassino entrare nella sua auto e andarsene, per tornare solo dieci minuti più tardi. Quando ricominciò a cercare Kitty nel parcheggio e alla stazione ferroviaria di Long Island, qui dietro. Videro un tizio che cercava qualcosa, ma non sapevano cos’aveva fatto e perché fosse tornato. Era tornato a finire il lavoro. In fondo, non l’aveva ancora violentata”. 

“Comunque dodici testimoni sono sempre tantissimi…passami la maionese. Questo caso, secondo me, passerà alla storia -se non per l’efferatezza- per il comportamento dei testi. Hai visto gli interventi degli psicologi, le polemiche sul Times, sul New Yorker, un casino. Non so spiegarti, ma qualcosa mi dice che quei dodici non sono un caso. Le persone non hanno chiamato perché casualmente erano tutti omertosi di natura, ma perché ci deve essere qualcosa che non conosciamo e che li lega, un effetto tipo domino”. 

Fabio lo dice in maniera categorica, al punto che smetto di racimolare le patatine sparse, poggio il burro di arachidi e inizio a seguirlo attentamente.

“Interessante, non ci avevo pensato…dici un effetto per cui chiunque, mettiamo per ipotesi anche te e me, se ci si trova dentro si comporterebbe nello stesso modo?”.

“Sì, più o meno sì”, Fabio prosegue convinto. “Prima abbiamo parlato di omertà, dovremmo però entrare più nello specifico, qui abbiamo un caso veramente particolare, qui abbiamo una forte ignoranza pluralistica”.

Fabio vede il mio sguardo attonito e prosegue.

“Forte questo termine, eh? L’ho sentito ieri, ne parlava un professorone alla ABC. Te la spiego meglio, in una interazione di gruppo su un avvenimento, che sia conviviale o meno, capita che le persone prima di agire si sentano inadeguate e quindi si confrontino con gli altri. Questo aumenta l’ immobilità e alla fine nessuno agisce. Ipotizziamo un incidente, se gli spettatori sono disseminati in un’ampia zona, allora in molti chiameranno i soccorsi; ma se per esempio un gruppo di testimoni, che non si conosce tra loro, si trova vicino… prima di chiamare si osserveranno, per vedere ognuno cosa fa l’altro e ritarderanno la chiamata di emergenza”.

“Se non erro questa teoria vale pure al contrario, no? Cioè limita il cessare di un’ azione che stanno portando avanti in molti, giusto?”.

“Esatto, il caso tipico è mentre si sta in una festa a bere birra, se uno dei partecipanti non ha più voglia di bere continuerà a farlo per paura di essere escluso dal gruppo. Non sapendo che magari anche tutti gli altri partecipanti volevano smettere di bere”.
“Questo ci spiega perché alla fine uno di quelli che ha fatto un minimo d’intervento è stato Mike. Lui non doveva sentirsi parte del gruppo. Mike, credimi, uscirà da questo quartiere. Che poi l’ignoranza pluralistica di solito è accompagnata dalla diffusione di responsabilità”. Questa volta tocca a Fabio fare la faccia perplessa. Il suo hamburger rimane a mezz’aria.

“Sì, accade quando le persone sono almeno tre, nessuno di quelli che dovrebbe agire si sente caricato della responsabilità di farlo, pensando che lo farà l’altro e quindi…..non agisce. E poi non dimenticarti che lei era gay, che Ross anche è gay. Lo sai che per tanti è una malattia, lo sai cos’è. Ross non voleva essere giudicato”.

Ci alziamo e usciamo: forse ha smesso di piovere. E’ quasi sera. Un rumore assordante precede un treno di linea. Siamo stati qui tutto il giorno e non ce ne siamo accorti che la ferrovia passa qui dietro. Se ce lo chiedessero, bei testimoni che saremmo.

“Certo non è un gran quartiere residenziale, sembra di essere in un film, treni che passano attaccati alle abitazioni”.

Ma si sta facendo sera e in quest’aria che lascia in bocca un sapore di pioggia, si accendono le insegne dei locali. Nella notte esplode il giallo dell’insegna all’angolo: “Drugs”. “Fairchild” invece si accende di bianco, mentre il negozio che ripara tvcolor ha la scritta in blu.

 

La facciata rossa del Mowbray. Il grande cartellone della Coca Cola, all’angolo, con la scritta stilizzata e la parola “Enjoy”. Da una finestra aperta esce una canzone dei Coldplay.

Siamo davanti alla rete che separa il retro dei Tudor dalla ferrovia. 

“Altro che quelli di una volta, guarda come li fanno aerodinamici questi qui!”.

“Ti ricordi che ci voleva una vita per Staten Island?”.

Una vita, sì. Una vita fa.

Il nostro sogno che finisce qui.

Però, questa ferrovia…

“A proposito, Fabio, ti ho mai parlato del mio bisnonno, Sisto Diana? Il padre di mia nonna Checchina. Beh, non ci crederai, ma lui era emigrato qui e lavorò proprio a questo tratto della ferrovia. Non fece mai ritorno in Italia dalla moglie, alcuni dissero che era morto, altri che era scomparso. In famiglia c’era voce che era morto mentre camminava, tornando dal lavoro, così. Dopo che morì mia nonna, però, trovammo nei suoi cassetti alcune lettere delle sue sorellastre: la storia era un’altra, mio nonno alla fine si era risposato da noi, nel Nuovo Continente. Ma questo non si poteva dire allora, per l’onta che avrebbe portato in famiglia… Così inventarono che era morto e a forza di dirlo, di ripeterlo ai figli, ai nipoti e al vicino di casa la storia divenne realtà e pure mia nonna si era convinta della sua morte…”. 

“Strani, i nostri parenti italiani. Però, proprio vero, eh? Quando una cosa non ci piace riusciamo a convincerci che non esiste. Come i testimoni del caso Kitty, dalle grida di aiuto dovevano capire, dovevano capire tutto. Ed è stato proprio per questo che non sono intervenuti…”

“Quello che sentivano era troppo brutto, quindi non esisteva. Forse, se avessero sentito qualcosa di meno eclatante, che gli avesse lasciato il dubbio, avrebbero chiamato tutti senza paura”. 

Una ragazza coi jeans a pelle cammina sul marciapiede di Austin Street, mentre scendono le ombre della sera si fanno notte. Chissà se sa cos’è successo tanti anni fa, su questo marciapiede. Che ha lo stesso colore grigio di allora. Il sangue è venuto via, cancellato da altri passi e altre storie.

“Ti ricordi cosa dissero all’epoca i professori? Ignoranza pluralistica, spartizione della responsabilità…beh, chiamala come ti pare, ma alla fine possiamo chiamarla con un solo nome: omertà”. 

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