Il rammarico di essere madre.

La prima reazione alla lettura del titolo sarebbe quasi sicuramente del tipo: “Ma come si può anche solo pensare una cosa simile?” Ebbene, era proprio la reazione desiderata in realtà. Come si potrebbe pensare diversamente? Secoli di tabù e non detti sono il frutto di culture che hanno portato alla non manifestazione di stati d’animo indicibili perché altamente sanzionati dal gruppo di appartenenza, e dalle società che si sono susseguite nei secoli.

Un silenzio direi quasi necessario per la perpetuazione della specie. I tabù quindi, nascono da esigenze pratiche. Come potrebbe riprodursi il genere umano se si pensasse e si accettasse l’idea che fare figli non è solamente meraviglioso ma anche molto impegnativo e richiede sacrifici e rinunce? Per non menzionare gli imprevisti. A tal proposito è con un sorriso che si ricorda la saggezza delle nonne quando, nell’intento di mettere in guardia la futura mamma, a monito asserivano “figli piccoli, problemi piccoli, figli grandi, problemi grandi”. A buon intenditor….e poi aggiungevano: “I figli sono un grande dono!”.

Lo status di donna fino a non molto tempo fa lo si acquisiva diventando madre e scelte contrarie comportavano un giudizio troppo pesante da gestire.

Oltre al rimpianto, il silenzio colpevole. L’amore per i figli non si discute ma ci si può pentire di essere madri…

…e non per questo dover essere soggette a giudizi indicibilmente violenti.

In una società che valorizza la maternità (senza sostenerla nel concreto), le donne che dubitano della loro maternità e la considerano gravosa, lottano per ammetterlo a sé stesse e agli altri. Eppure questa realtà esiste e il tabù che la circonda è ancora molto forte.

Più o meno doloroso, il rimpianto è legato alla sensazione di perdita legata alla rinuncia al proprio status di non genitore. Alcune pazienti con figli dicono di sentirsi rinchiuse, private della loro libertà. Questa libertà perduta si riferisce a diverse realtà: la mancanza di tempo per sé stessi, l’impossibilità di continuare con progetti personali o professionali pianificati o in corso, il timore di assumersi la responsabilità di un bambino, la sostituzione della propria identità di donna a favore di quella di madre. Si fatica a far coesistere entrambe e spesso non si pensa alla coesistenza ma alla sostituzione della prima con la seconda.

Si dimentica spesso che prima di esser mamma si è donna e che è importante prendersi cura di entrambe, perché entrambe coesistono e hanno bisogno di attenzioni.

E’ interessante addentrarsi nelle tante testimonianze raccolte da Orna Donath, sociologa e autrice del libro “The Regret of Being a Mother”. Jasmine, una delle protagoniste, illustra con queste parole il posto che per lei i bambini occupano nella vita di una madre: “Con un marito, almeno quando non c’è, hai una certa libertà. Con i bambini, anche quando non sono in giro, sono ancora lì da qualche parte nella tua mente”.

“Un figlio è per sempre”, recita la parodia di una nota pubblicità….

Sarebbe utile poter parlare liberamente della sofferenza psicologica che la maternità può generare. Tenerla nel silenzio significa mantenerla invisibile accentuando così il disagio provato da quelle donne che rimpiangono di essere madri. Al senso di colpa si aggiunge una sensazione di solitudine e il timore di non essere capite e accolte.

Nonostante si temano le reazioni è importante parlarne. Trasformare in parole il pensiero permette di dirlo a sé stesse prima di tutto, contribuendo poi alla riduzione del senso di colpa che una tale ammissione porta con sé.

I tabù sono refrattari al cambiamento e al giorno d’oggi dire che dispiace essere madre è ancora tabù, non importa se è ciò che si sente. Per quanto dolorosi, si sceglie di far passare i propri vissuti in secondo piano davanti al giudizio altrui.

Ascoltarsi è esprimere i propri desideri.

Una donna in carriera e una donna con figli sono spesso due concetti che anche nella realtà dei fatti e nella mente di molte donne, restano inconciliabili. Citiamo en passant, la dolente situazione italiana di grave carenza di un supporto sociale ed istituzionale adeguato che dovrebbe offrire alle donne madri e lavoratrici la possibilità di lavorare e crescere professionalmente senza per questo dover rinunciare alla maternità. Le società più sensibili al tema, offrono la possibilità di conciliare figli e lavoro in modo funzionale. Crescere professionalmente richiede un impegno in termini di tempo e conciliare tutto questo con il ruolo di madre diventa un’impresa quasi impossibile.

Ma ammettiamo che la donna non si ponga il problema di dover conciliare carriera e figli. La questione potrebbe spostarsi sul desiderio di diventare genitore. Del resto abbiamo sottolineato l’esistenza di un filo conduttore tra l’essere donna e l’essere madre. Alle giovani coppie è di rito chiedere: “a quando un bambino?” e se passa troppo tempo immancabilmente lo si fa notare: “tic, tac, tic, tac, allora?” Così, di fronte a forti pressioni sociali, familiari o addirittura coniugali, molte donne si impegnano nella maternità senza essersi domandate quanto desiderassero veramente diventare mamme.

“Non tutte le donne sono tagliate per la maternità!”

Così esordisce Luisa dopo aver accennato alle pressanti richieste da parte della suocera con la quale non è mai andata d’accordo. Luisa, che qui, per ragioni di privacy, chiameremo così, è stata una mia paziente che decise di iniziare un percorso di psicoterapia perché gli altri le rimproveravano il fatto di essere troppo soffocante verso i due figli. In realtà mi spiegò un giorno, che il problema stava nel fatto che gli altri non capivano che “una madre deve sempre essere presente altrimenti non è una buona madre, e può dedicarsi ad altro ma non a far figli”.

Con il tempo si giunse a conclusioni meno drastiche e più tolleranti verso le “critiche altrui”. Di vero c’era il fatto che Luisa aveva dedicato la sua quotidianità ai due figli e tutto ruotava intorno a loro con estrema precisione e attenzione. Le sue esigenze di donna erano state orami riposte da qualche parte con rassegnazione. O i figli o la carriera.

Finché un giorno Luisa arrivò come suo solito con puntualità alla seduta, ma curiosamente taciturna, lei che lamentava di essere troppo logorroica al punto da infastidirsi da sola. Si sedette e dopo un lungo sospiro a voce bassa disse: “ma la sa una cosa? Non siamo tutte fatte per essere madri, ma non lo sappiamo necessariamente prima. Lei (la suocera) mi diceva voglio essere nonna, mia madre l’avevo persa da tempo e mio marito sognava una famiglia numerosa. Al posto mio lei cosa avrebbe fatto? Non me ne sono accorta, in meno di due anni sono nati i bambini, ho dedicato loro la mia vita e mi sono sentita rimproverare anche questo! Non avrei dovuto. Io i figli nemmeno li volevo.” Il resto della seduta passa in silenzio. Al termine, si alza, saluta e se ne va. Non una parola in più.

Vorrei tranquillizzare chi legge. Luisa, ama sinceramente i due ragazzi e con il tempo ha imparato a tollerare il fatto che ognuno dei due ha la sua personalità, che la perfezione che ha sempre preteso da loro e da se stessa, era in realtà motivata da situazioni personali irrisolte e a lungo messe a tacere. Forse se fosse stata meno attenta alle esigenze altrui e avesse dato ascolto alle proprie non avrebbe scelto la maternità, si sarebbe conformata di meno alle richieste degli altri e avrebbe dato importanza ai suoi desideri.

Ma le cose erano andate diversamente e adesso non si sarebbe mai separata dai ragazzi e nemmeno le sfiorava l’idea. Era stata una grande fatica ma anche un sollievo riconoscere a sé stessa che i figli non erano stati una sua scelta e che il malessere non ben definito che per lungo tempo l’ha accompagnata, adesso aveva una spiegazione. La consapevolezza ha sostituito la tristezza, la rigidità, il perfezionismo che per anni l’hanno caratterizzata.

La pressione sociale non si ferma alla maternità

Non aderendo al mito della maternità felice, le donne che ammettono che avrebbero preferito non avere figli, incrinano l’ordine sociale. Ci sono donne che non si sentono a proprio agio con la maternità e ricordano la tanto amata libertà di disporre liberamente dei loro corpi, dei loro pensieri, dei ricordi, delle emozioni, dei desideri e dei bisogni. Tutto questo è pericoloso per molte società attuali nelle quali ancora è forte l’idea culturalmente condivisa della donna il cui ruolo indiscusso ed esclusivo è quello di madre.

Orna Donath, tuttavia, precisa che non ha voluto fare del suo libro una “propaganda anti-maternità”. Si tratta di mettere in guardia sulla falsa promessa definita dalla società che la maternità è un’esperienza indiscutibilmente positiva per tutte le donne, semplicemente perché sono donne”. “Ci viene detto che la maternità cambierà le nostre vite”, aggiunge Orna Donath, “ma se è davvero così, perché è impossibile accettare che per alcune donne non cambierà in meglio?”.

Tanto più che le pressioni sociali non si fermano al concepimento di un bambino e sono difficili da sopportare per le donne e non solo per quelle che si pentono di essere madri. “Ci vengono imposti modelli impossibili, cento anni fa avevamo figli, e come cresceva uno, crescevano gli altri. Non c’era l’immagine della famiglia ideale e perfetta. Ora, con i progressi della scienza e la legalizzazione dell’aborto, alle donne che hanno un figlio viene detto lo volevi? E adesso te ne assumi le responsabilità”.

Essere madre equivale a soddisfare le aspettative della società. Quando nasce il bambino, si è davanti al fatto compiuto e il vissuto di molte donne è quello non avere altra scelta che quella di diventare una madre perfetta.

Non è così: l’arrivo di un bambino non deve far sparire tutto il resto. Non si è solo madri. Si è anche donna, moglie, fidanzata, professionista…

Il rimpianto di essere madre, la possibilità di scelta.

Il lavoro di Orna Donath non è passato inosservato nei paesi in cui è stato pubblicato. Più in generale, nonostante la riluttanza delle donne a condividere la loro esperienza, osare parlarne rimane il modo migliore per far conoscere questa realtà e per informare le nuove generazioni di ragazze e di giovani donne.

“Ho già affrontato l’argomento con mia figlia”, dice Julie, una delle tante protagoniste del libro della Donath, “le ho detto che se avessi ascoltato di più me stessa, probabilmente non avrei avuto figli e che tutto questo non dipende da lei. Le difficoltà che ho nell’essere madre vengono da me. Ha capito molto bene, e quando dovrà fare una scelta, sarà già un passo avanti.”

Una scelta senza il peso del giudizio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto