Il mostro di Marsala

di Angelo Barraco, giornalista

L’arresto dello zio, Michele Vinci

Il 21 ottobre del 1971 è una data rimasta scolpita in modo indelebile nella memoria dei cittadini di Marsala, provincia di Trapani. Non riguarda soltanto coloro i quali erano già nati in quegli anni e ricordano nitidamente quei giorni tragici. Quel dolore, poi, è stato tramandato fedelmente ai figli e ai nipoti, con un’attenzione quasi maniacale nei particolare e con i dubbi e le angosce di cinquant’anni prima. Marsala negli anni ’70 era una città apparentemente tranquilla. Il commercio del vino e l’attività portuale rappresentavano la principale attività economica. Le strade non erano asfaltate ma piene di terra, pietre e talvolta impercorribili. Soprattutto quando pioveva e si creavano enormi pozzanghere. Purtroppo anche oggi accade, con le strade abbondantemente asfaltate. Le donne si occupavano della famiglia, rimanendo a casa, curando i figli e gli uomini che tornavano stanchi da lavoro. Il mare era una grande risorsa e riusciva a sfamare anche chi non aveva un lavoro stabile. Marsala era una città apparentemente tranquilla. Non c’era nulla di eclatante che sconvolgeva particolarmente la quotidianità dei cittadini se non la classica routine di una città di provincia.

Le sorelle Ninfa e Virginia Marchese avevano rispettivamente sette e cinque anni. Antonella Valenti aveva nove anni. Tutte e tre erano cresciute tra le case popolari INA di Marsala, nella povertà più assoluta. In quegli anni non c’era nessun parco giochi, non c’erano attività ludiche. Non c’era niente. I bambini crescevano in strada, tutti insieme. Le famiglie non avevano neppure i soldi per comprare una bambola o un giocattolo per tutti loro. I soldi non bastavano e quelli che c’erano servivano per mangiare. I bambini, quindi, dividevano i giochi, accontentandosi di quello che avevano. Ninfa, Virginia e Antonella erano delle bambine educate, che aiutavano sempre la mamma in casa dopo essere tornate da scuola.

Le famiglie erano molto numerose in quegli anni, c’erano tanti figli e ognuno doveva sbracciarsi e rendersi utile in casa. I maschi solitamente aiutavano il papà nei lavori in campagna o nelle attività vitivinicole, mentre le femminucce andavano a scuola e poi aiutavano la mamma in casa. Il 21 ottobre 1971, però, qualcosa cambierà per sempre. Alle ore 14:00, Ninfa, Virginia e Antonella lasciano la scuola elementare Pestalozzi di Piazza Caprera, percorrono Via Nino Bixio e Via Campobello per raggiungere la propria casa. In quel tratto di strada, però, svaniscono nel nulla.

Cosa accade?

Partono immediatamente le ricerche. Nessuno le vede o le sente. La quiete della città viene improvvisamente interrotta. Gli inquirenti interrogano subito i compagni di scuola, gli insegnanti poi ancora i vicini di casa e le famiglie. Niente. Non viene fuori nulla. Delle tre bambine non c’è traccia. Chi le ha prese? Un pervertito? Un forestiero? O forse un mostro? Parte la caccia all’uomo. Il primo vero testimone si chiama Hans Hoffmann, benzinaio, che dichiarerà agli inquirenti di aver visto le bambine a bordo di una 500L di colore blu. Si cerca allora l’autovettura su cui sarebbero state portate le bambine e vengono censite tutte le autovetture di quel tipo in città. In città c’è un vero e proprio clima d’odio. Molti proprietari di quell’autovettura la tengono in garage, preferiscono non guidarla per paura di essere etichettati come mostri.

Si, perché si cerca un mostro rapitore di bambini.

La voce che gira è questa. Le madri hanno paura e tengono i figli in casa, non li fanno giocare in strada perché c’è un mostro pericoloso che li rapisce. La speranza di ritrovarle ancora in vita viene definitivamente spazzata via il 26 ottobre, quando Vito Passalacqua e Gullo, dopo una sosta alla scuola abbandonata di contrada Rakalia per un impellente bisogno fisiologico, fanno una macabra scoperta: trovano il corpo di Antonella Valenti avvolto da un nastro adesivo e poi bruciato.

Chi ha commesso questa atrocità? Perché? Dall’autopsia emergerà che la piccola è stata torturata ma non ha subito violenza sessuale. Una perizia che andrà in pieno contrasto con la precedente, creando per anni un rimbalzo per le aule dei Tribunali. Si accendono i riflettori su Michele Vinci, zio della piccola Antonella. Il nastro adesivo che legava il suo corpo proveniva dalla Cartotecnica SanGiovanni, in cui lavorava. Ma non è tutto perché, Vinci, che faceva il fattorino, il giorno in cui sono scomparse le piccole, dalle 12 alle 16, era l’unico dipendente non presente in ditta. L’uomo viene messo sotto torchio e confessa il delitto: “semplicemente le ammazzai”. Indicherà poi il luogo in cui ha occultato le sorelle Marchere, ovvero un pozzo al Podere Guarrato. I corpicini delle piccole verranno recuperati nella notte tra il 9 e il 10 novembre.

L’autopsia sul corpo di Virginia e Ninfa ha stabilito che le bambine sono sopravvissute almeno 15 giorni. Un essere umano sopravvive sei giorni senza acqua: chi ha custodito le bambine e dove? Sono state tenute in un altro luogo prima di essere state calate nel pozzo? Dove? Ci sono stati dei complici? Chi? Perché Michele Vinci ha ucciso le bambine? A distanza di cinquant’anni, rimangono aperti tanti interrogativi che non trovano risposta: Michele Vinci ha agito da solo? Oppure è stato aiutato da qualcuno? Dove ha tenuto Antonella nei giorni della sua prigionia? Chi lo ha potuto aiutato? Perché Vinci avrebbe bruciato il corpo della piccola Antonella?

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