Siamo in un’era digitale. Quindi, usiamo un vocabolario adatto e per i più “nabbi”, per non sbagliare, è sempre meglio andare a controllare la definizione prima di avventurarsi in un linguaggio alternativo. Questa è la mia prassi. Del linguaggio dei tempi moderni sto imparando molto anche grazie ai ragazzi con cui condivido buona parte del mio tempo lavorativo e grazie a mio figlio, il mio “Virgilio del web”.
La Treccani ci dice:
“leone da tastiera loc. s.le m. (spreg., iron.) Chi, in Internet e in particolare nei siti di relazione sociale, si esprime in modo aggressivo e violento, non di rado ricorrendo a offese, insulti, minacce, di solito approfittando dell’anonimato, mentre nella vita reale non avrebbe la capacità di sostenere un contraddittorio”.
Come mai questo accade?
Quante volte sarà capitato di domandarsi cosa motiva una persona che a volte nemmeno conosciamo a girare per siti o social in modo provocatorio e per nulla costruttivo, insultando o polemizzando su questioni che spesso nemmeno la riguardano. Eppure da qualche parte questa motivazione tiene “incollate” queste persone allo smartphone o al pc.
Avvaliamoci dell’appellativo di “Serial Haters”, odiatori seriali che si nascondono dietro uno dei loro tanti profili social, preferibilmente falsi per alimentare lo “shitstorm”. Per shitstorm si intende il vortice di odio, offese, polemiche volte a provocare reazioni (meglio se violente) ad argomenti che la collettività fatica a riconoscere. Accettiamo varianti di profilo del tipo: fotografia reale e nome falso o vice versa oppure identità molteplici nessuna delle quali corrisponde a realtà nemmeno parzialmente e infine solo il cognome di mamma o papà è reale mentre il resto non lo è. Potremmo andare avanti ad oltranza ma possiamo accontentarci già di questo.
Quindi? Cosa spinge il nostro SH a dedicare parte della sua quotidianità ad esprimere odio? Quale necessità è soddisfatta da un comportamento intenzionalmente doloso e persino autolesivo?
La rete offre una dimensione, definita da indirizzi IP e indirizzi web che non danno una idea chiara, univoca, condivisa, di uno spazio ben delimitato e regolato. Le “netiquettes” (il “bon ton” del web) esistono e i più accorti le condividono ma è cosa rara se pensiamo al leone da tastiera. Rara, tanto quanto il buon senso che inevitabilmente viene a mancare. Nel virtuale si ha la convinzione che tutto sia lecito. E così, sin dal risveglio fino a fine giornata, gli SH si impegnano in azioni umilianti, denigratorie, persecutorie con la sicurezza di non essere rintracciati, di restare anonimi e con lo scopo consapevole di ferire e perseguitare.
Le forme di persecuzione possono essere molteplici e variare in gravità. Dalla polemica sterile in risposta a post altrui all’insulto grave e personale riferito al modo di pensare o di essere della persona o il gruppo di persone, prese di mira. Di fondo l’elemento comune è un sentimento di odio legittimato dalla condizione di anonimato in cui il nostro SH si trova. Senza freni, esprime rabbia mettendo in evidenza presunti “difetti” altrui con il chiaro intento di ferire.
Cosa si nasconde dietro all’odio?
La paura dell’altro. Il timore di ciò che è diverso da noi porta ad essere distruttivi nei confronti di chi presenta le caratteristiche che tanto temiamo. Nell’ottica dell’ identità sociale, il gruppo viene considerato il luogo in cui la propria identità prende vita. Questo porta necessariamente ad operare una distinzione tra il proprio gruppo e ciò che si trova all’esterno di esso. Quindi questa differenziazione “In-group/Out-group” consente di rinforzare l’identità del gruppo facendo di tutto ciò che ne è esterno, e quindi diverso, “l’acerrimo nemico da combattere”. Non vi è accettazione della diversità, ma una esasperazione delle differenze.
I meccanismi cognitivi e comportamentali alla base di questa scissione sono riferibili a schemi mentali e comportamentali in cui prevalgono il favoritismo per i membri del proprio gruppo e la protezione dell’identità condivisa mentre nei confronti dell’Out-group si assiste ad una competizione spesso malsana. Lo stare dentro al gruppo sembra condizione necessaria alla sopravvivenza.
La non accettazione di aspetti di sé
Un’altra spiegazione, che non esclude precedente, deriva dal meccanismo della proiezione, descritto in psicologia clinica, come un meccanismo di difesa di cui il soggetto, inconsciamente, si avvale.
La proiezione, gli consente di vedere negli altri aspetti di sé che non tollera. Egli assumerà quindi verso queste persone, portatrici di difetti inaccettabili, atteggiamenti aggressivi. In altri termini, l’altro è uno specchio che riflette parti indesiderate di sé. Così il “difetto” viene visto nell’altro che diventa l’oggetto della nostra aggressività. Il bersaglio del nostro odio.
Freud coniò il termine “proiezione” per indicare quegli aspetti di noi stessi che rifiutiamo . Nel nostro intimo, abbiamo bisogno di sapere che siamo buoni, altrimenti gli altri non ci accettano. Il rifiuto e l’isolamento ne sarebbero una diretta conseguenza. Pertanto, ogni aspetto cattivo di noi deve situarsi all’esterno.
L’incapacità di integrare in noi aspetti buoni e aspetti cattivi porta ad una scissione degli stessi che si riflette nella dinamica dei gruppi. Dentro=buono, fuori=cattivo.
L’attacco è una reazione di difesa.
Sembrerebbe un gioco di parole. Immaginiamo di renderci conto a livello cosciente, di un nostro difetto, ad esempio un naso troppo grosso. Questo difetto lo tolleriamo difficilmente, cerchiamo di nasconderlo fino ad arrivare ad una totale negazione della sua esistenza o alla sua trasformazione attraverso la chirurgia plastica. Vederlo in altri continuerà ad infastidirci, lo troveremo antiestetico e sarà poco grazioso/a chi lo porta. Una reazione di questo tipo, se innocua in determinate circostanze, diventa pericolosa e quando la si esaspera prendendo di mira l’imperfezione altrui.
Anche un pensiero può suscitare sentimenti di odio. Si sostiene una propria idea partendo dall’assunto che tutto ciò che se ne discosti sia falso e chi propone idee diverse sia da “bullizzare”.
La dialettica non esiste e la paura si manifesta sotto forma di odio protetti da uno schermo e dall’anonimato. È paura di doversi mettere in discussione, di dover riconoscere che esistono alternative altrettanto valide al proprio pensiero.
Accettare i propri difetti, consiste nella capacità di integrarli in noi. Finché non riusciremo ad accettare che per noi non sono una minaccia e che sono parte integrante di noi stessi, non riusciremo ad essere tolleranti verso gli altri. Provare compassione verso noi stessi significa essere tolleranti al “brutto” e al “cattivo” che ogni “bello” e “buono” porta con sé. Significa non pretendere di scindere sé stessi tenendo solo il positivo ed eliminando, gettandolo all’esterno, il negativo. Per logica, uno senza l’altro non può esistere. E il sapersi accettare implica la capacità di accettare l’altro.
Un vuoto da riempire.
L’odio verso qualcosa o qualcuno, quando supportato dall’appartenenza ad un gruppo e dallo stesso condiviso, svolge la funzione di “collante” tra i vari membri di un gruppo e offre una identità agli appartenenti al gruppo stesso. Questa identità “collettiva” distoglie l’attenzione del singolo dalla propria di identità e dall’impegno che richiede il crearsene una. Sostanzialmente il singolo sostituisce la propria identità con l’identità di gruppo perdendo o non conquistando mai la capacità di essere autonomo nelle proprie scelte, idee, comportamenti. Sentimenti personali come l’ingiustizia, la frustrazione, l’inadeguatezza, la vergogna sembrano “pesare” meno se condivisi e agiti con il gruppo fuori dal gruppo. L’odio è così la risposta alla minaccia che questi sentimenti suscitano.
Attaccare preventivamente l’altro genera la falsa sensazione di recuperare il controllo sul proprio dolore. Quel dolore che da soli non riusciamo ad affrontare. Quel mostro che anziché torturaci si scaglia sugli altri illudendoci e facendoci sentire forti.
Si nasce con la capacità di amare, di odiare, di essere tristi o felici. L’atteggiamento che decidiamo di assumere nei confronti di ciò che è “altro da noi” deve essere sempre il risultato di una scelta consapevole che riguarda il soggetto, la famiglia, la comunità e la cultura che si condivide. Per imparare ad odiare serve qualcuno che insegni a farlo.
La soluzione? Educare alla tolleranza verso sé stessi prima di tutto.
Noi non possiamo cambiare, non possiamo allontanarci da ciò che siamo, finché non accettiamo fino in fondo ciò che siamo. Allora sembra che il cambiamento avvenga quasi inavvertitamente.
Carl Rogers, La terapia centrata sul cliente, 1951