Alle 16 di pomeriggio russo del 1990 il sergente Igor Rybakov vide un uomo accanto a una fontanella della stazioncina di Donleshkoz. Mezz’età, stempiato, si stava lavando le mani. Dai vestiti sembrava fosse caduto nel fango e aveva foglie secche incollate addosso. Aveva una borsa a tracolla, un dito fasciato e una macchia rossastra su una guancia. Rybakov si mise a guardarlo. Era il giorno prima della Festa della Rivoluzione. Erano gli inizi di novembre. Il sergente aveva vent’anni ed era stato assegnato all’Operazione “Sentiero nel bosco”: la ricerca del Mostro di Rostov (che poi in realtà uccideva dal 1982 in un’area molto più vasta di Rostov stessa). Il sergente pattugliava quella stazione dal giorno prima. Il sergente sapeva che due settimane prima era stato ritrovato Vadim Gromov lì vicino. Il ragazzo aveva preso coltellate, la lingua era stata tagliata, i genitali anche.
Rybakov si avvicinò all’uomo e gli chiese i documenti.
“Allora, compagno Chikatilo, che ci fa qui?”. “Ho un amico che abita da queste parti”. Qui Rybakov sbagliò. Avrebbe potuto controllare la borsa: avrebbe trovato coltelli. Avrebbe potuto far controllare la macchia: avrebbe scoperto del sangue. Avrebbe trovato il corpo ancora caldo di Sveta Korostik, nei pressi della stazione. E invece fu ritrovata il 13 novembre, a una cinquantina di metri dai binari della ferrovia. La punta della lingua strappata da un morso, lo stesso per i capezzoli. La vagina asportata. Fu solo allora che Rybakov fece rapporto e scrisse il cognome Chikatilo. Fu solo allora che lo andarono a cercare, a prendere.
Lo arrestarono il 20 novembre alle 15.40. Lo fermarono per strada. Dichiarò il suo nome, non fece resistenza all’arresto, alle manette. Rimase silenzioso, come se la cosa in fondo non lo interessasse. Era passivo. Sapeva di essere a fine corsa. In auto, a un certo punto, se ne uscì e disse: “Sì, questo conferma ancora una volta che non bisogna litigare coi capi”.
Al primo interrogatorio rispondeva alle domande parlando da solo. Sembrava che gli altri fossero delle voci lontane. Diceva di essere un vigliacco, che doveva essere punito, non ammetteva nulla. Non era ancora pronto a farlo. Avevano dieci giorni di tempo per farlo parlare. Senza una confessione, non sarebbero andati lontano.
L’ultimo giorno fecero venire Aleksandr Bukhanov, lo psichiatra che aveva affiancato la polizia nelle indagini. Ci parlò tutto il giorno. Lo fece parlare. Lo psichiatra confermò alla polizia che era lui l’uomo che cercavano da anni. Il giorno dopo Chikatilo iniziò una lunghissima confessione, in cui mimò gli omicidi, spiegò come aveva fatto. Si erano immaginati un mostro orribile, si ritrovarono di fronte un uomo banale, squallido, monotono, insignificante. Un gran lavoratore, un comunista deluso che aveva ucciso 53 persone, senza sapere nemmeno lui il perché.