Sembra essere appropriata la frase di Giovanni Pascoli seppur riferita al genericol concetto di sofferenza. Il silenzio e l’incapacità di esprimere a parole la sofferenza è una caratteristica comune alle molteplici forme che il disagio psicologico assume. È in questa cornice che prende forma l’autolesionismo.
Il concetto di autolesionismo solitamente condiviso, comprende tutte quelle pratiche autolesive, volontarie o meno che hanno conseguenze negative per la persona. Tuttavia, il tecnicismo ci impone di definire tale pratica ponendo l’accento sicuramente sulla condotta autolesionista del soggetto ma specificando l’assenza di una esplicita volontà suicidiaria quando si parla di “non suicidal self injury”d’ora in avanti NSSI.
Infatti, nel definire tale comportamento, sembra acquisire grande importanza il fatto che il soggetto autolesionista non contempli l’idea di porre fine alla propria vita seppure sembrerebbe trarre un vantaggio nel porre in essere comportamenti che gli causino dolore.
La International Society for the Study of Self-Injury
La Società Internazionale per lo Studio su Comportamento Autolesivo non Suicidiario, definisce lo stesso come “un danno al proprio corpo deliberatamente autoinflitto senza intento suicidiairio e con finalità non socialmente accettate”. La definizione viene ampliata aggiungendo quelli che sono alcuni punti fondamentali utili al chiarimento del concetto:
In primo luogo, il danno che deriva dall’autolesionismo non suicidiario è una conseguenza intenzionale o attesa del comportamento. Tuttavia, comportamenti rischiosi che potrebbero causare danni a sé stessi come non indossare una cintura di sicurezza durante la guida o danni accidentali, vale a dire quei danni che possono verificarsi quando si praticano sport estremi, sono in genere esclusi dalla definizione.
In secondo luogo, l’autolesionismo di solito si traduce in una sorta di lesione fisica immediata. Tagli, lividi, graffi o segni sulla pelle. Mentre comportamenti che non producono lesioni sono solitamente esclusi, anche se dannosi o pericolosi. Ad esempio, la restrizione alimentare (che ritroviamo anche nell’anoressia), non è considerata una forma autolesiva poiché il danno fisico associato a tale pratica non appare immediatamente dopo la messa in atto del comportamento. I danni risulteranno evidenti solamente dopo un periodo prolungato di dieta alimentare.
In terzo luogo, il NSSI con include pensieri o comportamenti suicidiari. Le persone di solito riferiscono di non avere alcuna intenzione di causare la propria morte quando si impegnano in atti autolesionistici. Al contrario, in alcuni casi infatti, tale pratica può essere utilizzata per abbassare i livelli di frustrazione e di ansia direttamente collegati a pensieri suicidiari. Tali livelli potrebbero innalzarsi proprio per via di pensieri legati a ideazioni suicide a cui la persona tenta di opporsi. Quindi, paradossalmente, l’autolesionismo sembrerebbe essere una risposta alla difficoltà del soggetto di gestire i propri pensieri suicidi.
Infine, non sono considerati autolesivi quei comportamenti che potrebbero causare danni fisici ma sono parte integrante degli usi e costumi propri della società di appartenenza e parte di rituali culturali, spirituali o religiosi riconosciuti. Per questo motivo interventi di chirurgia estetica, il piercing o il tatuaggio non sono solitamente considerati forme autolesive.
C’è autolesionismo e autolesionismo…non suicidiario.
L’autolesionismo non suicidiario è spesso usato in modo intercambiabile con l’autolesionismo tout court, caratteristica comportamentale legata anche a condotte autolesive ma che possono essere deliberate o inconsce, letali o meno quindi indipendentemente dall’intento.
Quindi il NSSI è una forma più specifica di autolesionismo e sii riferisce a quei comportamenti più specifici nella loro modalità di infliggersi lesioni. In tal senso il taglio è tra le forme più ampiamente riconosciute di autolesionismo. Tuttavia, il comportamento può assumere molte altre forme, tra cui il bruciarsi con ferri roventi o sigarette, il colpirsi o il graffiarsi. Inoltre non è raro riscontrare casi di autolesionismo in cui sono presenti pratiche non esclusive e in cui coesistono diversi metodi per infliggersi dolore.
Dietro a ciò che ho descritto, forse adottando un’ottica necessariamente oggettiva, prende vita un turbinio di emozioni e di stati di sofferenza profonda che costituiscono il ritornello della quotidianità della persona che ricorre a tali pratiche.
Un universo di emozioni e stati affettivi che meritano la stessa attenzione con cui minuziosamente i tecnici della mente ricercano definizioni il più possibile chiare e condivise per lo studio dei fenomeni psicologici.
Lieve è il dolore che parla.
Il grande dolore è muto.
(Seneca)