Sono davvero passati i tempi in cui il tatuaggio era considerato sinonimo di ribellione? In fondo a volte esprimere a parole ciò che si prova è doppiamente difficile. Da una parte forse perché abbiamo difficoltà a sentirci letteralmente prendere posizione e dall’altra perché alcune idee e alcuni pensieri non possono essere trasformati in parole. Il peso della sanzione sociale e non solo, sarebbe troppo alto da pagare. Eppure verba volant, forma manet… Le parole svaniscono, un segno sulla pelle resta a vita e si tramanda attraverso usi e costumi propri del gruppo di appartenenza. Si dice “portare i segni della propria sofferenza”, allargherei l’affermazione al “portare i segni della propria esperienza” e noi siamo insieme di esperienze belle e meno belle.
Così, con il giusto compromesso, esprimo ciò che provo, lo codifico e chi parla il mio linguaggio sa ciò che voglio dire.
Per secoli il tatuaggio ha rappresentato quella forma di comunicazione alternativa, diremmo non verbale, che ha permesso a insiemi di persone di rimarcare la propria appartenenza ad un gruppo.
Qualunque esso sia. Il tatuaggio parla. Racconta volti, nomi e luoghi della vita di chi li porta.
Nella tradizione persiana, il guerriero diventava tale quando raggiungeva l’età adulta ed il tatuaggio era il rito di passaggio. Il marchio a caldo fatto sovente con un ferro rovente marchiava schiavi e prigionieri. Se restituiti alla società il tipo di delitto commesso o la punizione alla quale il soggetto era stato destinato restava tatuata per ricordare a tutti e a se stessi in primo luogo, l’errore commesso.
Era uso e consuetudine fare i tatuaggi su mani, viso e collo, chiunque potesse vederli ne avrebbe compreso la natura. E in caso contrario? In caso contrario non vi era necessità che comprendesse. Il messaggio non era sicuramente destinato a lui o a lei. Ci sono determinati segni e simboli, che hanno significati ben precisi. Ad esempio, indicano l’appartenenza a bande criminali o a gruppi di detenuti uniti per condivisione di stessi ideali. Alcuni indicano dipendenze o punti di forza. Altri sono volontari e personali. Una parte sono “forzati”.
E proprio nelle carceri si è sviluppata quindi una tradizione particolare del tatuaggio come segno distintivo volto a comunicare anche l’appartenenza ad un gruppo in cambio di protezione. Strumentazione artigianale frutto di grande ingegno è andata perfezionandosi negli anni e da punte perforanti alla tradizionale lama di rasoio si è passati a veri e propri apparecchi costruiti con spazzolini da denti, rasoi elettrici, caricatori del telefono, vecchi videoregistratori e così via…
Ma cosa vuol dire il tatuaggio in carcere?
E chi lo sa davvero? Il mondo criminale è ricco di simbolismi molti dei quali sono legati al “potere” di ciascun detenuto. Dal grado in senso gerarchico al grado inteso come indicatore di pericolosità/violenza caratterizzante colui che lo porta.
Alcuni simboli sembrano essere più frequenti come la lacrima che può indicare l’aver commesso un omicidio o aver visto uccidere uno dei propri cari, o il pentimento per il proprio crimine.
I numeri invece sono identificativi del proprio stato di detenzione o possono rappresentare l’appartenenza ad una banda. E’ interessante sottolineare che attualmente si sta verificando un fenomeno che nulla ha a che vedere con bande delinquenziali (o almeno non direttamente), ma che riguarda l’identificazione di gruppi di giovani adolescenti uniti da ideali comuni attraverso l’appartenenza a gruppi identificabili attraverso un numero e non un nome.
E ancora, abbiamo la croce sul petto, un tatuaggio piuttosto comune. Spesso ricondotta al suo significato religioso, potrebbe rappresentare la vita dopo la morte se si tratta di croce egiziana, la voglia di redenzione se è una croce a Tau, oppure, richiamare temi importanti come l’immenso e l’eternità rappresentati dalla croce di Malta. Il fattore comune sembra essere tuttavia, la totale dedizione alla propria fede, qualunque essa sia.
Le stelle tatuate sulle ginocchia potrebbero indicare la volontà di non inchinarsi davanti a nessuno.
L’occhio inciso sulla pancia o sulla guancia può indicare omosessualità.
Il boia può indicare chi ha ucciso un proprio parente o un amico stretto.
La tigre indica particolare aggressività e ribellione, soprattutto verso le forze dell’ordine.
Il ragno, a seconda della posizione può indicare un criminale attivo o una persona che ha abbandonato la carriera criminale. E si potrebbe andare avanti all’infinito con simboli e significati talmente legati a chi li porta che distinguere il limite tra significato che deve essere noto alla massa e quello che deve essere noto ai componenti del gruppo ristretto, non ci è dovuto saperlo.
Comunico quindi sono. L’identità passa attraverso il simbolo
I tanti significati tengono fede al messaggio che si vuole comunicare e soprattutto al “pubblico” a cui è destinato. L’importante è che il messaggio passi a chi deve recepirlo e tanto meglio se chi non deve non capisce.
In luoghi in cui la comunicazione verbale è strettamente controllata e analizzata con il fine di stabilire “la buona condotta del detenuto e l’esito positivo del processo rieducativo” la parola cede il significato al simbolo, la cui interpretazione può essere decodificata solamente da coloro i quali hanno le giuste credenziali per conoscerne il significato.
Volendoci attenere invece al principio del rasoio di Occam…che, tra più ipotesi per la risoluzione di un problema, indica di scegliere, a parità di risultati, quella più semplice…
“Forse mi sono fatto un po’ troppi tatuaggi. Ma, vedi, non è che uno abbia un gran da fare quand’è in prigione a parte profanare la propria carne!”
Robert De Niro Max Cady in “Il promontorio della paura”.