L’uso della “frecciatina” in maniera goliardica, come strumento linguistico tipico del comico e del “buffone”, suscita ilarità e mette allegria. A volte, la frecciatina mirata al tizio o alla tizia di turno ci fa stare anche bene e allenta la tensione. Fin qui nulla di discutibile. Tuttavia, non sempre se ne fa buon uso.
La bulla da tastiera
Scrivo al femminile senza nulla togliere all’equivalenti maschile. Come per molte altre cose, l’abuso e l’impiego decisamente inappropriato delle frecciatine, è indicativo dell’incapacità di utilizzare un linguaggio diretto per comunicare ciò che si vorrebbe ma non si può. Perché non si può? Forse perché si risulterebbe poco credibili? Forse perché il proprio pensiero, per quanto si sia fermamente convinti di essere nel giusto risulterebbe dissonante con quello della maggioranza? Oppure semplicemente perché non si reggerebbe la reazione dall’altro e si farebbe una gran bella figuraccia.
L’utilità social dell’uso distorto della frecciatina.
Distorto ne è l’uso tanto quanto distorta è la visione del mondo del soggetto che la utilizza. Purtroppo i social e i mezzi di comunicazione di massa in generale, si prestano, come per il “leone da tastiera”, a consentire a persone moleste di trovare uno spazio per essere, anche per un solo momento, le protagoniste della scena. Pensiamo alle implicazioni in termini di violenza psicologica che queste “discutibili modalità di apparire” hanno per i bersagli più fragili. Questa sottile forma di aggressione, viene legittimata il più delle volte da altrettanti “bulli” con vari like, cuoricini ed emoticons a supporto del nostro o della nostra bulletta da tastiera.
Se da una parte per fortuna ci rassicura sapere che gli zelanti followers, ferventi sostenitori (vuoi per parentela, vuoi per “amicizia”, vuoi per sudditanza) della bulla vadano inseriti nella Lista Nera dei reietti per caratteristiche psicologiche simili a quelle del leader, dall’altra ci si domanda quale sofferenza si celi dietro a tanta difficoltà.
Intuitivamente ciascuno di noi si raffigura la vignetta appena descritta e chissà che la mente di ognuno, in questo momento, non sia andata a rievocare situazioni di questo tipo che vedono dei giullari molesti i protagonisti istrionici del palcoscenico mediatico.
Spingiamoci più giù negli abissi della personalità.
Sotto alla superficie torbida di un animo profondamente fragile, si nascondono sentimenti di forte frustrazione e invidia. Le frecciatine sono il terreno ideale sul quale lasciare proliferare il disprezzo, e l’aggressività, sono lo strumento più facile da utilizzare quando a mancare sono il senso di sicurezza e l’equilibrio psicologico.
Presumibilmente, la frustrazione deriverebbe dal non sentirsi visti. Non si è riconosciuti nel proprio esserci, nell’espressione dei propri bisogni e dei propri desideri e si resta trasparenti agli occhi del mondo. È un rivivere antiche dinamiche relazionali fatte solitamente di figure genitoriali poco rispecchianti. La piccola che per un periodo ha mosso i suoi passi in un ambiente accudente e protettivo si ritrova improvvisamente a vivere l’incostanza e l’instabilità di risposte rassicuranti dalle figure genitoriali e sperimenterà vissuti di ingiustizia, rabbia e senso di colpa. Per non essere invasa da una profonda angoscia ella dovrà giustificare tale cambiamento e nel farlo imputerà a sé stessa i motivi ad esso sottesi. Si dirà di essere incapace, poco meritevole e brutta da non meritare più l’amore del genitore il quale, preso dalle proprie difficoltà, non accoglierà i tanti segnali e le richieste della bambina.
Nello sviluppo del sé del bambino una funzione importante è quella del rispecchiamento. Winnicott (1967) riporta la vignetta del neonato quando viene allattato al seno. Egli pone l’accento sulla relazione che si instaura nella diade in quel preciso istante mentre il bambino guarda sua madre. È attraverso la restituzione dello sguardo materno che il piccolo vede sé stesso. La madre, identificandosi con ciò che prova il suo bambino, gli restituisce proprio come farebbe uno specchio, l’immagine di sé stesso e di ciò che sta provando, attraverso espressioni del volto congrue al suo stato emotivo. Questa madre sufficientemente buona svolge anche una funzione di handling ovvero di contenimento, mentale e fisico di emozioni che non possono ancora essere adeguatamente esperite dal piccolo e che per questo vengono “digerite” dalla mamma contenitore.
“Ho il diritto di prendere ciò che non mi è stato dato”.
Louise J. Kaplan, una psicoanalista statunitense e direttore della prestigiosa rivista di psicoanalisi, American Imago, rende molto bene l’idea di ciò che potrebbe essere accaduto nel passato “bulletta da social”:
Per la neonata, il mondo in cui entra è un mondo buono, il Sé, un buon Sé quando l’amore e la protezione della madre, che sovrintende al suo ambiente, le porta il mondo in un modo che la fa sentire in armonia con ciò che la circonda. Quando però si sente trascurata, messa da parte, per la maggior parte del tempo, ella si trasforma in una bambina avida e vendicativa. L’avidità di cibo dettata dal panico-disperazione infantile si trasferirà in un tempo successivo a una sfera sociale più vasta, dove prima o poi la bambina deprivata e trascurata diventerà un’adulta che sente che l’unico modo per ricevere attenzione è di ingoiare, fare a pezzi, strappare, sventrare, squartare, afferrare, sottrarre, ingannare e imbrogliare: il tutto nell’intima convinzione di averne diritto.
E ancora, Fonagy (2006) ci dice che esperienze inadeguate di rispecchiamento impediscono nel bambino la formazione di rappresentazioni simboliche degli stati affettivi rendendogli difficile distinguere la realtà fisica da quella psichica. Ripetute interazioni deficitarie incidono nella capacità di tollerare e regolare le emozioni in maniera autonoma. Così, nella sua vita adulta, lo schema relazionale sarà permeato da emozioni dolorose da cui si dovrà difendere attaccando l’altro nell’intima convinzione che il solo modo per vendicarsi del torto subito è privare l’altro di ciò che ha. L’invidia, da peccato capitale a emozione distruttiva.
“Io ti invidio non perché voglio essere come te ma perché tu cada in basso come me”
L’invidia, parente dell’odio è solitamente ingrediente di molte psicopatologie. Nel suo libro “Invidia e Gratitudine” Melanie Klein afferma che “…la persona veramente invidiosa è insaziabile, non potrà mai essere soddisfatta, poiché la sua invidia scaturisce da dentro e pertanto trova sempre un oggetto su cui focalizzarsi”. In questo scenario va ad insinuarsi l’aggressività eterodiretta, che spinge l’invidiosa a danneggiare l’altro provando piacere nel farlo.
Tornando alla “propensione all’attacco” della bulla da social, sarebbe utile evitare accuratamente di cadere nella sua dinamica e farsi tirare giù nella profondità della sua solitudine. La speranza che l’invidia si trasformi invece nella sua forma più sana, l’ammirazione, non è mai vana per chi subisce. Tuttavia, difficilmente tale dinamica relazionale disfunzionale potrà cambiare se la persona resta nella sua ferma convinzione di essere nel giusto.