Bruno Bettelheim divenne famoso con la pubblicazione di libri popolari sulla psicoanalisi, tra cui il famoso saggio Psychoanalysis of Fairy Tales, pubblicato nel 1976.
Egli svelò in quell’occasione la portata simbolica della fiaba ed il messaggio nascosto dietro i racconti. A ben riflettere, cosa potrebbe apparire più innocuo di una fiaba? Tuttavia, secondo Bruno Bettelheim, sotto mentite spoglie, queste favolose storie nascondono messaggi simbolici potenti e formativi. Si rivolgono direttamente al subconscio del fanciullo e talvolta svolgono anche un ruolo terapeutico.
Questi assunti furono le linee guida della pratica psicoterapeutica che ha caratterizzato la sua “School of Orthogenics” dell’Università di Chicago, anche nota come “O School” di cui fu Direttore per trent’anni e fino alla sua morte sopraggiunta nel 1990. I suoi studi si incentrarono sulla psicoanalisi applicata all’età evolutiva, e sul trattamento psicoterapeutico dei bambini che presentavano “disturbi affettivi”, considerando parte del processo riabilitativo il procedere al distacco delle figure genitoriali dal piccolo paziente e l’adozione di metodi rieducativi basati su interventi non punitivi e non violenti.
La realtà dei fatti e la pratica nel suo Istituto, nonostante il buon professare, fu invece caratterizzata da largo uso di sevizie fisiche e mentali al fine di mantenere l’ordine. Ma questo e tanto altro si scoprì solamente dopo la sua morte.
Restando sul versante delle intuizioni e degli studi di Bettelheim in merito al significato delle fiabe, egli nel corso di diverse interviste ha spesso fatto riferimento a titolo esemplificativo a una delle più celebri, quella di Cenerentola.Per Bettelheim è sempre stata di fondamentale importanza la natura istruttiva del racconto. Cosa c’è dietro la storia della scarpetta di vetro e quale messaggio si nasconde dietro ad abiti sfarzosi che appaiono magicamente al tocco della bacchetta della Fata madrina?
“Il bambino capisce, non nella sua coscienza ma nel suo inconscio, che Cenerentola non vuole essere scelta per i suoi bei vestiti, i suoi gioielli (…) il principe deve vederla come è realmente (…) e il principe deve sforzarsi di trovarla. Non ci sarà vita felice se lei gli fa credere di essere sempre bella (…).
Il racconto pone simbolicamente il bambino di fronte alla realtà.
“Non siamo sempre belli, tutto il giorno e tutta la vita (…) Il principe deve scegliere la persona e non la persona in funzione dei vestiti che porta (apparenze). ”
Le fiabe hanno svolto il ruolo di mediatori e di catalizzatori di emozioni e concetti, capaci anche in alcune circostanze di essere terapeutici. Ciò può accadere in quei casi in cui le esperienze di vita sono state difficili e troppo pesanti per essere elaborate da soggetti fisiologicamente ed emotivamente immaturi per la loro portata.
E le streghe? Quelle brutte e cattive? Quale ruolo hanno?
Da bambini cosa avremmo fatto senza di loro? Molti risponderebbero che avrebbero passato notti più serene, eppure anche “le streghe” hanno svolto un ruolo importante nel processo di crescita.
Brutte e crudeli, con il naso ad uncino e poteri terrificanti possono sconfiggere chiunque con un abracadabra o addirittura inghiottirci crudi. Naturalmente, avevamo anche paura degli orchi e dei mostri al maschile.
Il risvolto educativo di tutto questo?
Ad esempio abbiamo provato un delizioso brivido a maledire la “brutta strega” e “l’orco malefico”. Qualcosa di intimo è scattato, notte dopo notte, quando sono stati espulsi da sotto il nostro cuscino. Un gesto liberatorio. Noi che da piccoli ed indifesi siamo diventati abbastanza grandi e forti per scacciare i nostri fantasmi, alcuni almeno. Uno stimolo per la nostra autostima, un senso di onnipotenza con una punta di orgoglio per avercela finalmente fatta. Una grande conquista. Gratificante insomma.
Bettelheim nella sua “Psicoanalisi delle fiabe” sottolinea quanto le fiabe “descrivano in forma immaginaria e simbolica le tappe essenziali della crescita e dell’accesso ad una vita indipendente”.
Verso la fine del XVIII secolo, all’inizio del XIX secolo, anche Charles Perrault e poi i fratelli Grimm pubblicarono le loro versioni scritte di vecchi racconti tramandati di generazione in generazione e secondo una tradizione orale.
Ai tempi, come tutti sanno, e come è facile desumere anche da questi racconti, i padri non sempre hanno preso una parte molto attiva nell’educazione della prole e questo per necessità inevitabilmente legate alla cultura del tempo – sia che lavorassero nei campi o andassero in guerra. Il loro coinvolgimento fu pertanto molto relativo. Ma l’uomo era la sola fonte di sostentamento, alla donna il compito di allevare la prole. Altri tempi appunto. Da qui tuttavia prendono spunto fiabe e racconti per narrare dilemmi esistenziali legati alla cultura del tempo. Dilemmi che ad oggi esistono ma sotto forme diverse, plasmati sulla cultura del momento.
Tempeste al coperto
Al tempo quindi, mentre agli uomini era attribuito il compito di “mantenere” la famiglia, alle donne – la madre, la nonna, l’infermiera e altre figure assistenziali e di supporto – spettava il compito quotidiano di nutrire, curare, intrattenere, consolare il pargolo. Ma dovevano anche rimproverare, punire, minacciare o, più in generale, frenare e “raddrizzare l’alberello” durante la sua crescita per renderlo forte e autonomo. Un ruolo anche questo di grande responsabilità.
Con il tempo ai sollevano nei figli tempeste interiori di risentimento, frustrazione, umiliazione.
- “Ma come odiare questa mamma onnipresente?”
Impossibile ripudiarla lasciando che la sua rabbia esploda così del tutto. “Sarà pure una carceriera ma ho bisogno di lei”. È anche impossibile per il figlio celare la rabbia: l’Onnisciente, nella sua onnipotenza, vede chiaramente anche nelle mie intenzioni più segrete.
- “E come affronto la mia colpa?”
Per un sì o un no, la mamma agitava l’indice e alzava la voce, negandomi a tradimento le caramelle che aveva promesso o, peggio, dandole a mio fratello, con l’aggiunta di un abbraccio.
La Provvidenza: arriva l’ora di coricarsi. La fiaba che mi viene letta mi ha permesso di “tagliare” la mamma a metà per odiare meglio la sua parte “ingiusta”. Talvolta principessa e talvolta strega. Eccomi qui, in piena sicurezza, in grado di gestire le mie ambivalenze. Le mie e le sue. Totalmente disintossicato dal suo veleno, e dal mio. Protetto dai suoi abusi, quelli che il potere di esser mamma le da inevitabilmente, e protetto dal mio senso di colpa per averla odiata.
Attraverso una fiaba possiamo riconciliarci insomma. Il cuore si riempie di quell’affetto che ci legherà anche domani, mentre insieme passeremo attraverso altre nuove avventure e attraverso i miei inevitabili dolori di figlio.
“La fiaba aiuta il bambino a non sentirsi devastato quando vede in sua madre qualcuno di malvagio”.
E tutti vissero felici e contenti…Anzi no. E tutti vissero con sempre maggiore consapevolezza.