di Fabio Sanvitale
Marzo 2021. Axa e Casal Palocco sono due quartieri di Roma. Qui, due bande di ragazzi si affrontano a calci, pugni e spranghe, dopo che già da un po’ infastidivano i passanti e compravano alcool al centro commerciale. Intanto, gli agenti del Commissariato di Mestre denunciano 6 ragazzi protagonisti di una rissa, iniziata su un autobus e proseguita poi per strada.
Intanto, a Nichelino (Torino) due bande si danno appuntamento per riempirsi di mazzate. Sembra fossero una cinquantina. Arrivano i carabinieri e li mettono in fuga. Intanto, a Milano, gli agenti del commissariato di Porta Genova mettono sotto chiave quattro ragazzini di 15-16 anni che terrorizzavano Parco Solari, rapinando e picchiando altri coetanei. E qui, sorpresa: c’è chi viene dal Giambellino e chi da una zona del tutto diversa, via Savona. Non fanno la stessa scuola, si sono trovati su Facebook e mentre alcuni vivono in contesti complicati, altri invece vengono da famiglie “normali”. Negli stessi giorni, la polizia sventa una maxi rissa di 200 ragazzini in Piazza Duomo.
Che succede? Succede innanzitutto che ci sono le mode e adesso, sui media, vanno le baby gang: non è che ogni rissa deve per forza nasconderne una. Rendiamoci anche conto che ora queste risse stanno succedendo anche come fenomeno di emulazione (un po’ come le pietre dal cavalcavia di tanti anni fa) e quindi come sono arrivate passeranno. Succede però anche che le baby gang (almeno negli Usa) sono sempre esistite, se è vero che sono state studiate già in libri di un secolo fa. Succede che sono un fenomeno del tutto diverso dal bullismo, basato su aggressioni individuali e continuate.
Spesso le azioni di una baby gang si risolvono in un mordi e fuggi necessario ai bisogni della giornata: le scarpe nuove, lo smartphone nuovo, i soldi per la serata in discoteca… Parliamo spesso di ragazzi nati e cresciuti in quartieri dormitorio, senza servizi, senza trasporto pubblico, senza alcun posto di svago, senza genitori che facciano i genitori. Ma non sempre la spiegazione è così facile, come dimostrano i ragazzini di via Savona. Apparentemente, a loro non manca niente: però poi esce fuori il bisogno di onnipotenza, e nel realizzare queste violenze in realtà non dimostrano nessun coraggio (facile la vita, in 7 contro 1), ma solo un vuoto interiore pazzesco.
E allora, perché succedono queste cose?
Perché c’è appunto un desiderio di onnipotenza, di controllo e riconoscimento: c’è un buco dentro e questi sono i materiali che si ritrovano per riempirlo. D’altronde, si sa, è più facile essere cattivi, sembra la soluzione più veloce per ottenere le cose materiali che si vogliono e la personalità che si vuole. Il male è sempre la via più breve invece della fatica di crescere e capire. Da qui, l’abbandono scolastico e il disadattamento sociale, come conseguenza del rifiuto delle regole della convivenza. Un genitore assente, disinteressato, repressivo, separato, povero, porta poi a fare sì che un ragazzo cerchi fuori quello che non trova a casa…e questo non dipende certo dal ceto sociale.
Ma l’ambiente conta fino a un certo punto, conta tantissimo anche come si nasce, cioè le caratteristiche personologiche. Conta ad esempio la regolazione emotiva. L’“acting out”, cioè l’agire impulsivo e con rabbia, che so, a un commento, all’essere sfiorati da un altro, a uno sguardo, è proprio di chi non ha nessuna struttura per contenere le sue emozioni, per gestirle. Ne viene fuori una veloce ricerca di vendetta, che non permette un dialogo o un confronto, cioè proprio quello che questi ragazzi non sanno fare né hanno imparato a fare.
La gang, che raggruppa questo genere di ragazzini, a loro serve. Eccome, se serve. Placa le loro paure, che sono quelle di stare crescendo senza punti di riferimento; ne nasce un rapporto coi pari basato su una supposta fratellanza, tema su cui gli adolescenti ci sentono molto…ma può esistere davvero fratellanza in un gruppo criminale? La mia esperienza dice di no, si finisce sempre per fregarsi l’un l’altro. La fratellanza, d’altronde, è un valore e una banda, di valori, non ne ha. E alla fine arrivano i post coi video degli scontri o dell’aggressione, come modo per rafforzare l’identità in una società in cui solo se appari esisti, sei vivo.
E qui entra in campo un altro aspetto. Le baby gang ci fanno vedere all’opera l’ “effetto branco”: se aggrediamo in 7, la responsabilità andrà divisa per 7, così come anche il coraggio che ci vuole per farlo. Ci si sente meno colpevoli e meno codardi. D’altronde, ciò che viene fatto in gruppo con molta probabilità non lo si farebbe mai da soli. E, nel contempo, quell’aggressione la fai perché la fanno gli altri e non è che proprio tu, adesso, ti tiri indietro col tuo bel faccino, sennò sei uno zero. E tu non vuoi essere uno zero, sennò nella banda non ci saresti mai entrato…
Alla fine di tutto questo, l’identità vuota del ragazzino si riempie e si plasma in quella del gruppo, che gli dà un riconoscimento, un senso, un perché. Fino alla prima coltellata o al primo arresto, al carcere, alla comunità.
Fin qui, stando alle baby gang, diciamo, tradizionali. Altro discorso è per quelle di tipo latinos, nate da immigrati sudamericani di terza o quarta generazione. E altro discorso ancora per quelle napoletane, primo passo per entrare nella camorra o per prendere il posto dei boss anziani finiti in carcere. Una cosa è certa: queste sono tutte vie d’ingresso per la criminalità adulta. Dalla microcriminalità al Minorile il passo è breve. Da lì a fare altri reati, pure. E a salire di grado e a pensare che tanto la propria vita è solo quella. Fino a che una famiglia o una comunità ti tirano fuori dai guai. Perché la soluzione sono sempre gli altri, alla fine: dove non arriva il singolo, tocca a chi ti guarda da fuori e ti vede per quello che sei. Non un piccolo boss da serie tv, ma solo un adolescente confuso e rabbioso, pericoloso e sbandato.