Di seguito è riportata una ipotetica vignetta di un caso “tipo” ricostruita dalla sintesi di diversi casi reali di hikikomori e che illustra le caratteristiche chiave della condizione in cui un soggetto si isola totalmente dal contesto esterno (TEO 2010).
Jean è un uomo di 21 anni, che vive in una condizione di totale isolamento da 3 anni. Da sempre introverso e timido, queste caratteristiche caratteriali lo hanno reso una facile vittima di bullismo ai tempi della scuola. A seguito di uno scoppio d’ira, viene ricoverato al pronto soccorso al reparto di psichiatria. La diagnosi emessa dopo attenta osservazione è stata quella di un episodio delirante transitorio. A quel tempo, la diagnosi aveva evidenziò una cronicità del sintomo e la terapia trattamentale che ne conseguì fu l’assunzione di farmaci neurolettici e l’accesso ad un percorso psicologico assumendo come dato di fatto che Jean fosse un paziente affetto da disabilità psichica.
Il trattamento fu successivamente modificato. Si constatò l’insussistenza di prove cliniche a supporto della diagnosi emessa e si iniziò a considerare il caso di Jean come quello di un paziente con disturbo di personalità. Di conseguenza cambiò anche l’approccio terapeutico. La psicoterapia istituzionale venne implementata con colloqui psicologici a cadenza giornaliera e la somministrazione di neurolettici fu sospesa. Dopo qualche tempo, Jean venne dimesso dal reparto di psichiatria e riprese gli studi.
Il nodo centrale della terapia fu rendere possibile a Jean di contattare e successivamente elaborare i propri vissuti di profonda sofferenza. Il totale isolamento rappresentava il sintomo di un disagio estremizzato e al tempo stesso continuava ad alimentare inconsapevolmente la sofferenza. L’accesso alle cure fu graduale. Il rifiuto immediato di ricevere aiuto necessitò di un graduale approccio basato sulla co-costruzione di un rapporto di fiducia.
È fondamentale tener conto di quanto l’ambiente famigliare sia importante nell’intervento sul paziente.
Del resto la prima agenzia di socializzazione è la famiglia e in essa ritroviamo quegli schemi relazionali incistatisi nel tempo e con i quali il soggetto ha improntato la propria vita relazionale fino a quel momento. Da quel punto occorre ripartire. Un esempio di protocollo di approccio ai pazienti hikikomori è quello francese. Un protocollo all’avanguardia se si considera la novità del fenomeno nel 2005 (GUEDJ 2008 “La claustration à domicile de l’adolescent”, Congresso dell’Association Francophone d’Etude et de Recherche des Urgences Psychiatriques, GUEDJ 2011).
Nei reparti di emergenza psichiatrica (CPOA Hôpital Sainte Anne Paris) vengono attivati servizi di accoglienza per una consulenza ad hoc, chiamata “consulenza familiare senza paziente”. Questi sportelli erano rivolti a quelle famiglie che riscontravano difficoltà nella gestione del familiare quando l’accesso alle cure era impossibile per il paziente che le rifiutava. Se pensiamo che ancora oggi è difficile trovare negli ospedali un servizio di supporto psicologico adeguato nella comunicazione al paziente di uno stato patologico grave che lo affligge, prestare attenzione alle famiglie disorientate dalla patologia del proprio caro significa fare passi da gigante. Andare oltre. Tuttavia, nonostante gli sforzi in questa direzione, si è tutt’ora in una fase di “lavori in corso” interminabili.
È proprio a queste famiglie che va la giusta attenzione quando per questioni legate alla complessità della situazione e al non sapere come relazionarsi con il familiare non vengono accolte nei loro timori e nelle mille domande che le affliggono.
Francia e Giappone. Hikikomori a confronto.
Sempre in Francia nel 2013 da H. BENHAMOU e M. DE LUCA in occasione della giornata di scambio culturale tra le due nazioni “Regards croisés France-Japon”, organizzata a Parigi da M. FANSTEN, C. FIGUEREIDO e N. VELLUT si è parlato del fenomeno. Ricercatori francesi e giapponesi in collaborazione hanno elaborato un percorso trattamentale per quei giovani soggetti che sviluppano un quadro psicopatologico che include episodi psicotici o di ansia sociale, rivolgendo una particolare attenzione alle dinamiche sociali ed al loro potenziamento.
Sembra che in Giappone il ritiro dalla vita sociale svolga una funzione difensiva nell’hikikomori ed eviti un calo degli ideali personali o familiari, e molto meno il ritiro sembrerebbe essere conseguenza di difficoltà concrete.
Nel 2017, una ricerca svoltasi in Francia dal team Psymobile di Lione (CHAULIAC et al) aveva come obiettivo quello di fornire una descrizione socio-economica e una distribuzione diagnostica di 66 casi. In media, la richiesta di aiuto avveniva dopo 2 anni e mezzo di isolamento totale, con esordio intorno ai 20 anni. Molti soggetti soffrivano di disturbi del sonno e avevano pochi legami sociali al di fuori delle frequentazioni in famiglia. Solo il 13% dei pazienti non aveva una diagnosi psichiatrica e poteva così essere considerato “hikikomori primario”.
2019, Giappone. Un articolo sul grande quotidiano Asahi Shimbun: “hikikomori una grande preoccupazione anche in Europa”.
È curioso come ogni nazione scelga una terminologia appropriata al fenomeno. Ad esempio in Francia, viene utilizzato il termine “claustrazione” con un richiamo al “monastico”. Questo termine è stato poi associato al sequestro. Il soggetto riferisce di sentirsi vittima di un “sequestro” (di tipo volontario), una sensazione di essere stato moralmente sequestrato.
Vi è poi il termine “ritiro” con un significato di tipo sociale e riferito al ritiro delle relazioni. Un termine utilizzato anche in Italia, tuttavia, non rende l’idea di un isolamento totale dal mondo esterno. Si utilizza il termine “ritiro” anche in occasione di una diminuzione transitoria dei rapporti interpersonali. Si ritrovano negli scritti anche allusioni all’isolamento di tipo carcerario.
Infine diventa di uso comune il termine “ad hoc” preso in prestito al Giappone: “hikikomori “che designa sia il fenomeno del confinamento in luogo chiuso che il soggetto affetto dal disturbo. È un termine composto da “hiku” letteralmente spinto dall’esterno verso l’interno e “komoru” che vuol dire ritirarsi.
Ma come si diventa hikikomori?
Il processo di isolamento è piuttosto complesso come ogni fenomeno psicologico. Si tratta di una matrice di fattori in sinergia tra loro che per motivi biologici, psicologici e socio-ambientali danno luogo a questo tipo di manifestazione comportamentale. Il processo sembra svilupparsi generalmente in tre fasi:
FASE 1: la persona inizia a percepire la necessità di isolarsi dall’esterno ma tenta comunque di mantenere le relazioni sociali più significative. I primi segnali sono il rifiuto di andare a scuola, l’alterazione del ritmo sonno-veglia e la propensione per attività di tipo solitario. Potrebbe tuttavia trattarsi di una manifestazione passeggera, un calo transitorio del tono dell’umore dovuto ad un cambiamento importante.
FASE 2: il malessere sperimentato in ambito sociale trasla sulle relazioni dirette, che vengono gradualmente rifiutate. Si mantengono le relazioni con genitori e fratelli/sorelle. I segnali che contraddistinguono questa fase possono essere l’abbandono della scuola, un tono dell’umore disforico, uno spostamento dell’attenzione verso il web ed i social.
FASE 3: l’isolamento diventa totale. Si rifiuta qualsiasi contatto con la famiglia di origine e attraverso la rete. Aumenta il rischio di sviluppare psicopatologie. I tratti depressivi si cronicizzano fino a raggiungere livelli patologici con manifestazioni di autolesionismo e di dipendenza da internet.
I Italia, Lazio sembra essere la regione con più casi in assoluto. Il fenomeno sembrerebbe riguardare in netta maggioranza soggetti di sesso maschile (tra il 70% e il 90%), si tratta soprattutto di giovani dai 14 ai 30 anni che decidono di ritirarsi dalla vita sociale per un periodo che varia da alcuni mesi fino a diversi anni. In famiglia i rapporti con la figura materna sembrerebbero essere caratterizzati da un atteggiamento iperprotettivo mentre la figura paterna sembrerebbe essere assente. Tuttavia, le dinamiche familiari sono molto più complesse e articolate della generica descrizione appena data.
Soffro quindi sono.
Aldilà delle caratteristiche che riguardano la popolazione Hikikomori, è sempre bene mettere l’accento sulla soggettività dell’esperienza dolorosa. Possiamo avvalerci di statistiche, di sintomi e di una definizione del fenomeno. Per quanto accurata non dobbiamo mai perdere di vista il fatto che un fenomeno di tale portata è la manifestazione estrema di un disagio profondo, una rappresentazione paradossale di una disperata richiesta di aiuto. L’isolamento è richiesta di attenzione.
Gli addetti ai lavori si scontrano frequentemente con il totale rifiuto da parte dell’hikikomori di un percorso trattamentale. Il primo contatto e “l’aggancio” risultano difficili e l’intervento sembra apparentemente privi di possibilità. Il rifiuto categorico spingerebbe chiunque a desistere dal proporre un aiuto. Invece è proprio la costanza nel rivolgere l’attenzione al soggetto isolato che consentirà nel tempo di varcare la soglia della fiducia reciproca. I molti “no” si trasformeranno gradualmente nella presa di coscienza che un’alternativa alla condizione di isolamento esiste e forse vale la pena di essere sperimentata.
Per quanto un intervento possa risultare difficile, la difficoltà non giustifica la mancata presa in carico del soggetto. Sappiamo tuttavia che qualsiasi tipo di trattamento necessiti di una motivazione da parte del soggetto che vuole accedervi. Sentirsi accolti è il primo passo verso il cambiamento ed è compito arduo del professionista gettare le basi per una futura alleanza con il paziente.